martedì 28 agosto 2012

“La cena” di Herman Koch

“La cena è un romanzo teso, doloroso…politicamente scorretto…molto contemporaneo”. Così Daria Bignardi definisce il romanzo di Herman Koch.
Poche parole che colgono perfettamente l’essenza di questo libro che, in poco più di 250 pagine, riesce a trasformare il semplice racconto di uno spaccato di vita familiare in un thriller avvincente e spietato attraverso una narrazione dal ritmo serrato ed incalzante, spesso intervallata da flashback che aiutano il lettore a comprendere meglio la psicologia dei vari personaggi e a mettere a fuoco ciò che si cela dietro la maschera che ognuno di loro indossa.
Ho letto questo libro su suggerimento di un’amica che lo aveva recensito per il suo canale video (www.youtube.com/user/pennylane1202) e devo ammettere che mi ha davvero sorpresa, è un romanzo assolutamente da leggere!
Il consiglio è di affrontare la lettura senza conoscere le vicende che verranno narrate e, se si è in grado di resistere, senza leggere il riassunto sul retro della copertina dove vengono svelati troppi particolari che rovinerebbero la suspense, creata dall’autore in modo perfetto, nell’attesa di conoscere “il fatto” sul quale è costruito tutto il romanzo.
Cercando di anticipare il meno possibile, posso dire che il racconto, intervallato con perfette scelte tempistiche e narrative da flashback che portano il lettore a conoscenza degli avvenimenti precedenti, si svolge nell’arco di una cena (da qui la suddivisione dei vari capitoli in aperitivo, antipasto, secondo piatto, dessert, digestivo e mancia) in uno dei migliori ristoranti di Amsterdam.
A tavola siedono due coppie, due fratelli con le rispettive mogli: lo scopo della riunione di famiglia è discutere di un “reato” commesso dai due figli quindicenni, Michael e Rick.
I genitori di Michael, Paul Lohman (io narrante), un professore di storia in pensione anticipata, e Claire, una donna apparentemente serie ed affidabile, sono presentati come una coppia affiata e positiva, che crede nei valori della famiglia. I genitori di Rick, sono invece da subito proposti come una coppia piena di contrasti e sin dalle prime pagine si ha un’impressione negativa di entrambi: lui, Serge Lohman candidato, con ottime possibilità di vittoria, alle elezione di Primo Ministro, è un uomo “finto”, dai “mille volti”, la cui esistenza è basata solo sull’apparenza; lei, Babette, è una donna frivola e superficiale, interessata esclusivamente alla carriera politica del marito per poter vivere di luce riflessa e ricoprire il ruolo di First Lady.
Procedendo con la lettura ci si rende conto che l’apparenza inganna, pagina dopo pagina, l’autore ci lascia percepire che non tutto è come sembra e così la coppia perfetta vacilla davanti agli occhi del lettore. Quelle persone che sembravano tanto responsabili, politicamente corrette non sono poi così oneste e sincere come erano sembrate all’inizio del libro, il castello di carte inizia a scricchiolare; quella coppia per cui si è provata una simpatia immediata non è per nulla innocente, ma è invece cinica e violenta. Allo stesso tempo l’altra coppia, dalla facciata perbenista e snob, che sembrava essere tanto sprezzante ed opportunista, diventa quasi una coppia di persone “normali” con i loro difetti e le loro colpe che agli occhi del lettore a questo punto diventano quasi peccati veniali. L’autore ci fornisce un tassello dietro l’altro e, svelando di volta in volta particolari del vissuto di ognuno dei protagonisti, ci permette di mettere a fuoco una verità che nessuno avrebbe immaginato.
Mi fermo qui, non posso dire di più per non rovinare il piacere della lettura e della scoperta che, come ho già detto, è fondamentale in questo romanzo sconvolgente ed inquietante.
Cosa è morale e cosa non lo è? A quali compromessi saremmo disposti a scendere pur di proteggere i nostri figli? Quanto è importante la felicità? Quali reati commetteremmo pur di vivere serenamente? Saremmo disposti anche ad uccidere, a rubare, ad ingannare il prossimo pur di salvaguardare noi stessi e le persone a cui vogliamo bene?
“La cena” è un romanzo che fa pensare, che pone interrogativi ai quali è difficile dare risposte, una realtà quotidiana e scomoda che non vorremmo mai dover affrontare.
Questo libro è un pugno nello stomaco, fa male per la sua freddezza, il suo squallore e la sua autenticità ma serve a farci riflettere; il mondo descritto in questo libro è il mondo in cui viviamo, non è fantascienza è vita vera, è un dramma contemporaneo.
Un romanzo davvero affascinante e perverso, che per ambientazione, dialoghi e descrizioni dettagliate della psicologica dei personaggi sarebbe perfetto per un lavoro teatrale.

lunedì 20 agosto 2012

“Barry Lyndon” di William M. Thackeray (1818-1863)


Thackeray diede inizio alla stesura di “Barry Lyndon”, pubblicato a puntate nel 1844 sul Fraser’s Magazine, quattro anni prima della pubblicazione del romanzo che gli diede la fama “La fiera della vanità”.
Nell’edizione BUR che ho acquistato c’è una breve descrizione del libro a cura di Flavio Santi che riporto di seguito:
“Ecco la dimostrazione lampante che il Settecento contiene già l’intera modernità. Tutta questa adrenalina fatta di fughe, duelli, amori, peripezie non è cinema puro? Non sono i fotogrammi di una pellicola in anticipo di due secoli sui Lumiere? Una volta tanto non dovrete incollarvi allo schermo: lasciatevi trascinare dalle avventure di Redmond Barry. Il romanzo è uno strepitoso technicolor di parole ed emozioni”.
Confesso che, nonostante l’evidente errore di attribuzione errata del romanzo al Settecento, questa descrizione ha attirato la mia curiosità e ha contribuito a far sì che leggessi il libro. Dopo averlo letto però mi è venuto spontaneo chiedermi se le parole di Santi siano davvero una descrizione del romanzo o non siano state piuttosto ispirate dalla visione del film che Stanley Kubrick ha liberamente tratto dal romanzo stesso. Ammetto di non aver ancora  avuto occasione di vedere il film, ma spero di colmare presto questa lacuna, sono infatti piuttosto curiosa di conoscere che taglio il regista abbia dato alla storia e di sapere come risulti la vicenda riportata sul grande schermo.
Tornando al libro, devo ammettere che l’ho trovato terribilmente noioso e lento, un monotono susseguirsi di aneddoti e racconti monotematici (gioco d’azzardo, donne sedotte, corti europee e campagne militari) relativi alla vita del protagonista. Scritto come un’autobiografia, il romanzo narra in prima persona le vicende di Barry Lyndon, un personaggio d’invenzione, ispirato alla figura dell’irlandese Andrew Robinson Bowes, la cui pessima reputazione e la cui cattiva condotta si adattano perfettamente al protagonista del romanzo di Thackeray. Le vicende di Andrew Robinson Bowes forniscono all’autore solamente gli elementi essenziali del romanzo, entrambi i personaggi infatti, sia quello reale che quello di pura finzione letteraria, appartengono alla piccola borghesia irlandese ed entrambi attraverso il matrimonio vengono elevati al rango nobiliare oltre ad ottenere un consistente patrimonio sposando delle ereditiere che alla fine si riveleranno più scaltre dei mariti riuscendo a metterli fuori gioco. Entrambi dilapideranno la fortuna delle consorti e saranno oppressi dai debiti di gioco, ma nelle pagine del romanzo, Barry Lyndon sarà anche un giocatore d’azzardo di professione oltre ad essere il protagonista di una discutibile carriera militare.

Forse, nel corso delle mie molteplici avventure non mi sono mai imbattuto nella donna adatta per me, e ho dimenticato, poco dopo, tutte le creature che avevo adorato; ma credo che, se mi fossi imbattuto in quella giusta, l’avrei amata per sempre.

Acquistare qualche migliaio di sterline l’anno a costo di una moglie odiosa è un pessimo investimento per un giovane di spirito e di talento.

Barry Lyndon è un personaggio irritante e senza scrupoli, è un antieroe. In un periodo storico in cui gli autori scrivono romanzi di formazione quello di Thackerey è tutto l’opposto.
Il lettore fin dalle prime pagine, ben guidato in tal senso da Thackeray, prova una sorta di diffidenza nei confronti del protagonista che si rivela da subito un personaggio antipatico e irriverente. Nel racconto della sua storia, dall’ascesa sino al suo declino, Barry Lyndon, distorce continuamente i fatti, non provando alcuna vergogna. Non cerca mai scuse per il suo comportamento scorretto e se, in rari casi, è costretto dagli eventi a cercare una sorta di giustificazione, lo fa con una naturalezza al limite dell’imbarazzante: la colpa è sempre degli altri.
Scrive le sue presunte memorie dalla prigione di Fleet ma non guarda al suo passato con tristezza, né con rimorso, la sua persona è tutto ciò che conta, l’attenzione è sempre puntata su sé stesso e il suo declino non è altro che la prova delle sue conquiste del passato.

Ma come è mutevole il mondo! Quando consideriamo quanto grandi ci sembrano i nostri dolori e quanto sono piccoli nella realtà; quante volte pensiamo di essere sul punto di morire di dolore e quanto rapidamente dimentichiamo tutto, penso che dovremo vergognarci di noi stessi e della mutevolezza del nostro cuore.

Thackeray dimostra di essere un profondo conoscitore dell’animo umano nonché un capace scrittore di satire; Barry Lyndon è indubbiamente un personaggio ben riuscito secondo l’intento moralistico prefissatosi dall’autore, servendosi di sarcasmo ed ironia Thackeray crea un personaggio che noi oggi potremmo definire uno snob. Attraverso la descrizione di quest’uomo privo di morale inoltre Thackeray mette in guardia i lettori da una società corrotta, dissoluta e ipocrita abitata da uomini privi di scrupoli, disonesti e depravati.

I grandi e i ricchi sono sempre ben accolti con grandi sorrisi sullo scalone del mondo, ma i poveri che hanno aspirazioni debbono arrampicarsi sulle pareti, o spingersi lottando sulle scale di servizio, o strisciare come talpe lungo le fogne della casa, non importa se sporche o strette purché portino in alto. I pigri senza ambizioni asseriscono che non vale la pena di arrivare in cima, abbandonando la lotta dichiarano di essere filosofi. Io dico che sono codardi poveri di spirito. A che cosa serve la vita se non per ottenere onori? E questi sono tanto indispensabili che vogliamo raggiungerli ad ogni modo.

Osare e il mondo si arrende sempre o, se qualche volta vi sconfigge, osate ancora ed esso soccomberà.

Questo romanzo è stata una delusione rispetto alle mie aspettative, il ritmo lento e la storia ripetitiva e monotona ne fanno un libro terribilmente noioso; mi aspettavo molto di più dall’autore di un capolavoro quale “Vanity Fair”. Il personaggio di Barry Lyndon è davvero troppo indisponente, ma il romanzo lascia però intravedere la grande capacità di Thackeray di descrivere l’animo umano, la sua visione cinica della società dove non sono sempre il bene e la virtù a prevalere.
Se volete leggere qualcosa esclusivamente per distrarvi e passare qualche ora lieta, vi consiglio di leggere un altro libro; da leggere assolutamente invece se desiderate conoscere più a fondo l’autore e le sue opere perché Barry Lyndon è un abbozzo del personaggio ben più riuscito di Becky Sharp (La fiera delle vanità), un’arrampicatrice sociale, priva di scrupoli e principi, che riuscirà a raggiungere il successo manipolando il prossimo. Becky Sharp come Barry Lyndon è fredda e calcolatrice, egoista ed arrivista, ma al contrario di Lyndon ha anche dei pregi: è una donna intelligente e colta mentre Lyndon disprezza la cultura e deride, guardandolo dall’alto in basso, chiunque la possieda. Becky sa riconoscere le proprie sconfitte e soffre quando deve cedere a bassi compromessi perdendo tutto ciò che ha guadagnato; solo lei è la causa dei suoi mali ed il lettore non può certamente giustificarla, ma è comunque portato a volte a provare un po’ di compassione nei suoi confronti. Non ci può essere nessun sentimento di pietà invece da parte del lettore per Barry Lyndon che è talmente sicuro di sé da non riconoscere neppure la propria caduta; il suo atteggiamento ed i suoi modi lo rendono un personaggio insopportabile, odioso ed irritante dalla prima all’ultima pagina.