lunedì 29 settembre 2014

“Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” di Giancarlo Giannini

SONO ANCORA UN BAMBINO
(ma nessuno può sgridarmi)
di Giancarlo Giannini
LONGANESI
Giancarlo Giannini nasce a La Spezia nel 1942. Nella città ligure trascorre la sua infanzia fino all’età di otto anni quando il padre viene trasferito a Napoli per lavoro.
Il padre di Giannini è un padre piuttosto assente e così egli trascorre le sue ore soprattutto con il nonno, il suo primo maestro di vita.
Un ruolo fondamentale nella sua infanzia lo hanno anche la nonna e le zie, le sorelle della madre; proprio nella cucina della nonna nasce la passione di Giannini per il cibo.
L’attore ama quei profumi e quei sapori che lo fanno sentire a casa in qualunque posto si trovi e forse proprio per questo motivo ha scelto di iniziare la sua biografia parlandoci della ricetta del pesto.
Non ha mai avuto comportamenti da star e non ha mai avanzato assurde pretese; l’unica sua richiesta durante le riprese in giro per il mondo è stata quella di avere una stanza con un angolo cottura dove, finito il lavoro sul set, potersi rifugiare a cucinare, un valido espediente per riuscire a rimanere fedeli a stessi ed alle proprie origini.
Quando a otto anni si trasferisce a Napoli con i genitori e la sorella, incontra un mondo completamente nuovo.
Quello ligure è un popolo tenace e testardo, i napoletani sono solari e fantasiosi; Giannini fa sue tutte queste caratteristiche.

Leggendo la sua biografia, incontriamo un perfezionista, un uomo che ama lo studio e la preparazione, ma che allo stesso tempo si scopre essere un uomo aperto all’innovazione, alla ricerca dell’escamotage per superare gli intoppi che possono nascere durante le riprese, un uomo per cui la recitazione è finzione e soprattutto gioco.

A Napoli frequenta un istituto tecnico elettronico; quelle per la fisica, l’elettronica e la scienza sono per lui delle vere passioni tanto che ancora oggi egli si considera un elettronico mancato.

Giannini approda al teatro in maniera piuttosto casuale, ha già conseguito il diploma in elettronica, quando viene invitato a salire sul palco per sostituire un attore assente ad uno spettacolo messo in scena dagli amici di un amico, spettacolo al quale egli era solito assistere e del quale conosceva ormai tutte le battute.
Il regista dello spettacolo riconosce subito il suo potenziale e lo incoraggia ad iscriversi all’accademia.
Giannini decide di darsi una possibilità come attore e si iscrive alle selezioni per entrare all’accademia di arte drammatica Silvio D’Amico dove non solo viene preso, ma ottiene anche una borsa di studio.
Due soli anni di accademia a Roma e la sua carriera inizia a decollare, fin da subito si esibisce infatti per grandi platee e condivide la scena con attori già affermati.

Giancarlo Giannini ci parla molto della sua infanzia, ma ci racconta pochissimo della sua vita privata; una scelta, quella di difendere la sua privacy, che egli ha mantenuto rigorosamente sin dagli esordi.
Non manca invece di raccontarci numerosi episodi ed aneddoti legati alle persone che ha incontrato durante la sua lunga ed intensa carriera che lo ha visto lavorare in teatro, recitare per il cinema sotto la direzione dei più grandi registri italiani e stranieri, essere regista lui stesso oltre che doppiatore di famosissimi attori hollywoodiani tra cui Jack Nicholson, Mel Gibson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Michael Douglas.
La sua è una vita fatta di incontri con i grandi del teatro, ma soprattutto del cinema. Ha conosciuto e recitato con straordinarie attrici e importanti attori: Anna Magnani, Monica Vitti, Mariangela Melato, Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Alain Delon, Keanu Reeves, solo per citarne alcuni, ma sono davvero tantissimi.
Così come sono tantissimi gli straordinari registi con i quali ha avuto l’onore e il privilegio di lavorare e dei quali in queste pagine ci racconta particolarità e curiosi episodi: da Luchino Visconti a Lina Wertmuller, da Fassbinder, a Monicelli, da Pupi Avati a Franco Zeffirelli… e volendo citare qualche americano possiamo ricordare Ridley Scott, Spielberg….

Giancarlo Giannini si definisce “ancora un bambino”, ma leggendo queste pagine ne esce un personaggio piuttosto contraddittorio.
Un uomo estroverso ed introverso allo stesso tempo, un bambino per la sua voglia di recitare e giocare, di costruire oggetti con le proprie mani, di scoprire il mondo, ma anche un uomo che ama i suoi momenti soli, un uomo che desidera la solitudine e non la teme, così come non ha paura della morte perché per lui la morte è il mistero più grande, è il raggiungimento della conoscenza.

Quando leggiamo del Giancarlo bambino che solitario medita sulla spiaggia, ci chiediamo se egli sia mai stato davvero un bambino e allo stesso tempo quando leggiamo del Giannini adulto che entra in un negozio e compra un robot per montarlo e smontarlo affascinato dai suoi meccanismi, comprendiamo perché lui si ritenga ancora tale.
Inevitabilmente si sovrappongono davanti ai nostri occhi le immagini di un bambino già adulto e quella di un adulto ancora bambino.

Giannini affascina il lettore per la sua energia, la sua sete di conoscenza, per il suo desiderio di capire come siano fatte le cose, per l’entusiasmo che prova nel costruire oggetti con le proprie mani; stupisce il lettore con le sue passione per la fotografia e la pittura e lo sbalordisce con i brevetti delle sue invenzioni.

Si scopre così una persona che non perde occasione per mettersi in gioco, che non si tira mai indietro, che accetta le sfide perché gli permettono di cercare di raggiungere quella famosa asticella che qualcun’altro prima di lui ha posto lassù in alto e che, se possibile, vorrebbe egli stesso riuscire ad alzare ancora un poco per chi ci proverà dopo di lui.

Io sono sempre stato un artigiano della recitazione. Non ho mai improvvisato, ho sempre avuto una preparazione molto solida alle spalle.

Interessante leggere il pensiero di un attore del suo calibro sui vari metodi di interpretazione.
Per Giannini recitare è un gioco, è finzione e in quanto tale il personaggio deve essere interpretato dall’attore facendo propria la parola chiave “creatività”.
Ad Hollywood è tutto diverso; secondo l’acclamato metodo dell’Actors Studio, infatti, l’attore deve calarsi nella parte, deve immedesimarsi nel personaggio stesso.

Loro hanno gente che entra nel personaggio, stando male come stanno male nella finzione. Ma non scherziamo, ragazzi, io mica sono per quella scuola. Io interpreto un personaggio. Io lavoro sul personaggio. Non fatemi fare troppi sforzi, dai, su. E ` solo un gioco.

Giannini ripete spesso che recitare è un gioco, “to play” in inglese vuole dire sia giocare che recitare, ma è un gioco serio perché l’attore ha comunque delle responsabilità ben precise nei confronti del pubblico:

Noi attori abbiamo un dovere nei confronti degli altri: siamo privilegiati, e il risarcimento verso chi ci guarda deve essere chiaro, netto, immediato. Abbiamo il dovere di ricordare a tutti che c’è un’alternativa alla realtà, alla logica, all’omologazione e all’istinto.

Ci sono poi pagine bellissime sul comprendere che tipo di regista l’attore si trovi di fronte.
Secondo Giannini già alla seconda scena si può comprendere se il registra è un illuminato o un mediocre.
Nel primo caso si può aprire un dialogo fatto di proposte e controproposte, il tutto porterà a produrre qualcosa di eccellente e mai visto prima.
Nel secondo caso, Giannini suggerisce, di fare quello che il regista chiede, senza discutere tanto sarebbe solo tempo sprecato oltre a portare solo una sofferenza atroce.
Giannini ovviamente lo applica al suo mondo, quello del set cinematografico, ma è indubbiamente un valido suggerimento per ognuno di noi qualunque sia la nostra occupazione.
                                                                                                                               
Giancarlo Giannini è un personaggio vulcanico e per sua stessa ammissione sempre in continuo movimento:

Devo avere idee, altrimenti mi spengo. Devo sperimentare, pensare, creare, altrimenti è come entrare in letargo e buttare via qualcosa di prezioso. Non mi sono mai fermato, in tutta la mia vita.

“Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” è un libro un po’ disordinato, dirompente e frenetico come il suo autore.
Fa sorridere il fatto che un’autobiografia di un attore che usa la carta millimetrata per disegnare assi cartesiane sulle quali riportare gli stati d’animo del personaggio che deve interpretare e che disegna una griglia a colori per ricordare quali personaggi si incontrino nelle varie scene, sia così “caotica” inteso ovviamente nel senso buono del termine.
Giannini riesce a catturare l’attenzione del lettore e a mantenerla viva pagina dopo pagina grazie anche a questi continui “salti” del racconto che non sempre segue una linearità temporale.

Perché leggere questo libro?
Perché è interessante leggere di un personaggio così versatile, capace di interpretare ruoli comici e drammatici con la stessa intensità e bravura, un uomo dotato di grande spiritualità ed allo stesso tempo di un notevole senso pratico.
Perché racconta la storia del cinema italiano con qualche assaggio del mondo hollywoodiano al quale l’Italia non dovrebbe invidiare nulla.
Perché fa venire una voglia matta di riscoprire il nostro cinema e di andare a rivedersi tutti i vecchi film per capire, conosce e approfondire.




domenica 21 settembre 2014

“Chiara di Assisi” di Dacia Maraini


CHIARA DI ASSISI
Elogio della disobbedienza
di Dacia Maraini
RIZZOLI

Dacia Maraini scrive che sono i personaggi a chiederle di essere raccontati, si presentano alla sua porta per un tè e poi magari domandano di restare anche per la cena e a volte chiedono pure un letto per la notte; a quel punto lei capisce che è giunto il momento di scrivere un nuovo libro.

Se ci soffermiamo a riflettere un momento, non è poi così diversa la dinamica che spinge un lettore a scegliere un libro. Spesso, infatti, è lo stesso libro a sceglierci e non viceversa.

Così è accaduto che “Chiara di Assisi” di Dacia Maraini mi abbia scelta…
Un giorno di luglio, una delle tante domeniche piovose che hanno caratterizzato la nostra estate, mi sono imbattuta per caso nella replica di una puntata di “Visionari”, la trasmissione di Corrado Augias.
La puntata era dedicata a Chiara di Assisi; ospiti in studio Dacia Maraini, la professoressa Chiara Frugoni e Giacomo Galeazzi.
Non sono particolarmente religiosa, come tanti sono cattolica non praticante, e ad essere sincera avevo una conoscenza solo superficiale di Santa Chiara, la cui figura spesso è stata messa in ombra dall’immensa figura di San Francesco.
Sono rimasta però talmente affascinata da questa donna che al ritorno dalle vacanze ho deciso che era giunto il momento di cercare di scoprire chi fosse veramente Chiara e, quasi senza rendermene conto, mi sono ritrovata a leggere il volume di Dacia Maraini.

E’ fondamentale quando si decide di avvicinarsi a questa figura di donna, poi divenuta santa, non dimenticare mai che non può e non deve essere giudicata in base a criteri moderni.
Chiara, come la stessa Dacia Maraini sottolinea più volte, è una giovane del suo tempo e come tale ha compiuto delle scelte, comportandosi in modo che ai nostri occhi potrebbe sembrare banale, forzato o talvolta persino scontato, ma che nella realtà dei fatti per lei non lo fu affatto.

Il libro non lo si può definire né un romanzo né un saggio.
La Maraini trova un simpatico e devo dire molto ben riuscito escamotage per introdurre la storia di questa mistica.
Inventa una misteriosa corrispondenza con una ragazza siciliana, tale Chiara Mandalà, che la invita a scrivere di quella santa che porta il suo stesso nome.
Il racconto assume quindi dalle prime pagine uno stile epistolare per poi passare ad una forma diaristica in cui la scrittrice giorno per giorno annota non solo quanto apprende su Chiara di Assisi nel corso delle sue ricerche, imponente la bibliografia consultata, ma anche le sue stesse impressioni su questa straordinaria figura femminile del Duecento.

Chiara Mandalà è una ragazza strana che ad un certo punto sparisce dal racconto, permettendo così alla scrittrice di seguire la propria personale ricerca sulle orme della santa di Assisi, salvo poi farsi nuovamente viva alla fine del racconto per discutere delle conclusioni tratte dalla Maraini su quanto appreso.

La motivazione addotta da Chiara Mandalà alla domanda del perché per lei sia così importante che uno scrittore o una scrittrice scriva questo libro è in apparenza priva di senso: Chiara non riesce a capire se stessa e ritiene semplicemente che se qualcuno, Dacia Maraini è la sua seconda scelta, scrivesse di Santa Chiara, lei finalmente sarebbe in grado di trovare la sua strada.

Oltre al nome, le due Chiara hanno in comune un rapporto conflittuale con il cibo: Chiara Mandalà è anoressica e per quanto riguarda Santa Chiara è risaputo che digiunasse spesso e mangiasse comunque pochissimo.

Leggendo la vita di Santa Chiara e l’importanza che per lei assunse il digiuno, si ha quasi l’impressione che i disturbi alimentari, così comuni nella società moderna, nascano quasi da uno stesso desiderio di spiritualità.  

Spiritualità che nel caso della santa fu di origine religiosa, ma che nel mondo contemporaneo potrebbe essere anche di natura diversa.
E’ come se il corpo sia considerato un impedimento per raggiungere l’io più profondo o il divino e per questo motivo si decida di boicottarlo privandolo del naturale sostentamento.

E’ come se il corpo fosse qualcosa che impedisce di raggiungere lo spirito, Il piacere della tavola le era diventato molesto, come il sapore della costrizione, il sapore dell’obbligo.

Chiara rifiutava infatti tutto ciò che era imposizione compreso il bisogno del cibo.

Entrambe le Chiara inoltre sono vergini, non solo il corpo viene quindi punito con la fame, ma viene privato anche di ogni altro piacere che possa distogliere la persona dalla più profonda spiritualità e dal raggiungimento della piena libertà.

Ma chi era Chiara di Assisi?

Chiara ha scelto la povertà assoluta. Ha abbandonato una stanza addobbata, un matrimonio agiato, una casa, dei camini accesi, vesti di broccato, gioielli, buon cibo, l’affetto dei suoi, per andare ad abitare in una bicocca, al freddo, dormendo su un sacco riempito di foglie su un pavimento gelido, contando solo su un poco di cibo elemosinato.

Partendo da queste premesse Dacia Maraini rende partecipe il lettore del suo viaggio alla ricerca delle motivazioni che spinsero una giovanissima e bellissima ragazza a compiere scelte così drastiche.
La Maraini si interroga sul perché Chiara abbia deciso di seguire Francesco.
Sembra impossibile che una giovanissima donna, praticamente una ragazzina, potesse avere una volontà così ferrea da scegliere una strada così difficile; una scelta della quale, non dimentichiamolo, non si pentì mai.
Chiara, pur giovanissima, si innamorò dell’ideale francescano a tal punto da sacrificare tutto per sposare la povertà.
A Francesco dobbiamo riconoscere il grande merito di essere riuscito a trovare una tanto risoluta e virtuosa seguace, senza nulla togliere ovviamente alla vocazione di Chiara che fu vera e profonda.

Viene inoltre spontaneo chiedersi quanto sulla scelta di Chiara abbia influito il rifiuto del matrimonio.
Dobbiamo ricordare che le donne nel medioevo avevano solo due possibilità: il matrimonio o il convento. Chiara scelse liberamente il secondo, ma non ci sono certezze che fosse stata indotta a ciò per sfuggire al primo.
Di certo però sappiamo che, se anche il desiderio di evitare il matrimonio le fece scegliere il convento, lei non si pentì mai della sua scelta, tanto che diventata badessa del convento di San Damiano per volere di San Francesco, non rivendicò mai per se stessa il ruolo di protagonista, ma anzi spesso, come si evince dalle testimonianze tratte dal processo per la sua canonizzazione, compì lei stessa i compiti più umili e non disdegnò neppure di gettarsi ai piedi delle monache per convincerle dei loro errori e riportarle sulla retta via .

Ma nonostante questo buono e mite carattere Chiara di dimostrò sempre irremovibile nei suoi proposti e, facendo appello a tutta la sua dolcezza, perseguì sempre il suo fine:

Et mai non podde essere inducta né dal papa né dal vescovo Hostiensi che recevesse possessione alcuna.

Possedere qualcosa significa doverlo difendere e nel difenderlo diventare schiavi di quel qualcosa; Chiara desiderava la libertà, non voleva vincolo alcuno, nessuna imposizione.
La povertà diventa un privilegio laddove non è imposta, ma è decisa per libera scelta.

La libertà non è soltanto arbitrio, la libertà non è rifiuto delle regole o chissà quale altra diavoleria.
Esiste anche la libertà della curiosità, della scoperta, della conoscenza, dello scambio, del vagabondaggio.

Potrei parlarvi ancora per ore di questo libro: bellissime sono ad esempio le immagini della vita nel convento di San Damiano, potrei raccontarvi della malattia di Chiara e del suo modo di affrontarla, un’invalidità che la costrinse a letto dai trenta ai cinquantanove anni, ma davvero vorrei che scopriste da soli questa donna, non solo per la sua religiosità della quale ovviamente era impregnata, ma per la forza e per la dolcezza che emanava quella sua esile figura che sapeva essere contemporaneamente mite ed energica, remissiva e potente, tanto da riuscire a modificare le regole del suo tempo.

“Chiara di Assisi” è un libro affascinate come la sua protagonista, interessante e ben documentato, che vi conquisterà sin dalle prime pagine.
Un ottimo punto di partenza inoltre per chi volesse in seguito approfondire l’argomento.



domenica 14 settembre 2014

“La nascita di Venere” di Sarah Dunant

LA NASCITA DI VENERE
di Sarah Dunant
SUPERBEAT
Il romanzo si apre con un prologo che introduce il personaggio di sorella Lucrezia, un’anziana monaca ormai malata e vicina alla morte.
Una suora pia e caritatevole, ma molto taciturna e della quale nessuno conosce la storia.
Si mormora però che al suo ingresso in convento, avvenuto trent’anni prima, la monaca non avesse lasciato del tutto fuori la sua vanità così come libri e dipinti di cui sembra fosse stato pieno il suo cassone, oggetti che all’inizio del XVI secolo erano poi stati banditi secondo le disposizioni della nuova legge suntuaria.

Finito il prologo inizia la storia vera e propria presentata come il testamento di sorella Lucrezia e non è difficile comprendere immediatamente che il racconto che leggeremo altro non è che la storia della stessa monaca da lei raccontata in prima persona.

Protagonista del racconto è la giovane Alessandra Cecchi, quarta figlia di un prestigioso e ricco mercante di stoffe fiorentino, padre di altri tre giovani: Plautilla, prossima alle nozze, e gli scapestrati Luca e Tomaso.
Alessandra è la minore dei quattro fratelli e non è particolarmente legata a nessuno di loro: ritiene Plautilla troppo sciocca e frivola mentre con Luca e Tomaso è sempre in aperto contrasto. Tomaso, il fratello bello e vanesio, inoltre non perde occasione di stuzzicarla e lanciarle pesanti frecciate per il suo aspetto “da giraffa”.
Alessandra Cecchi è, infatti, una ragazza interessante ed intelligente, ma non può essere definita una bellezza secondo i canoni dell’epoca.
Ama lo studio e le lettere, conosce il greco e parla correntemente latino. Sopra ogni cosa però Alessandra è appassionata di pittura e ama disegnare; sogna un giorno di poter ottenere una commissione tutta sua che le permetta di mettere a frutto la sua arte, desiderio irrealizzabile per una donna del suo tempo tanto più considerata l’estrazione sociale di appartenenza.
Al ritorno da un viaggio di lavoro, il padre conduce con sé un giovane pittore fiammingo per far dipingere la cappella di famiglia e la ragazza resta affascinata da questo giovane misterioso ovviamente non solo per le sue capacità artistiche.
All’epoca in cui Alessandra vive, sono solo due le scelte di vita possibili per una donna: il matrimonio e il convento.
Poiché Alessandra, curiosa e piena di vita com’è, morirebbe ad essere rinchiusa in un monastero, si vede costretta ad accettare il vincolo matrimoniale.
Non ha neppure quindici anni quando va in sposa ad un uomo molto più anziano di lei che potrebbe esserle padre.
Cristoforo Langella è un nobile fiorentino, un uomo molto colto e amante dall’arte tanto da vantare una discreta collezione di sculture e non solo nella propria dimora.
Cristoforo è apparentemente affascinato dalla viva intelligenza di Alessandra e sigla con lei un patto per il quale, una volta divenuta sua moglie, la ragazza potrà dedicarsi agli studi e all’arte come più le aggrada, unica richiesta evitare scandali.
Alessandra però capirà fin troppo presto che quel patto che a lei sembrava così vantaggioso, in realtà nasconde numerose insidie e la sua vita non sarà più la stessa.

Il romanzo è affascinante come il periodo storico in cui è ambientato, periodo storico che Sarah Dunant è riuscita a rendere in maniera superba in tutta la sua brutalità, bellezza e vitalità.

Pagina dopo pagina il lettore viene sempre più immerso nell’atmosfera della Firenze di fine Quattrocento e primo Cinquecento.

L’epoca in cui è ambiento “La nascita di Venere” è il periodo di passaggio dalla Signoria alla Repubblica.

Alessandra Cecchi nasce all’epoca in cui signore di Firenze è il grande Lorenzo De’ Medici detto Lorenzo il Magnifico e assiste all’ascesa di Girolamo Savonarola, il frate che profetizza sciagure per Firenze e si adopera con ogni mezzo, senza preoccuparsi di utilizzare anche metodi repressivi, affinché la città ritrovi fede e costumi morigerati.
Morto il Magnifico, sotto l’influenza del Savonarola e complice una politica incerta da parte del successore di Lorenzo De’ Medici, Piero De’ Medici, il quale non riesce a fronteggiare l’arrivo dell’esercito di Carlo VIII, giunto in Italia per rivendicare i diritti degli Angioini sul Regno di Napoli, Firenze diviene Repubblica.

Attraverso la storia di Alessandra Cecchi e della sua famiglia apprendiamo come dovesse essere la vita quotidiana dell’epoca.
Leggendo la sua storia la accompagniamo per le strade della Firenze medicea, ammiriamo le opere d’arte tra cui i famosi affreschi del Ghirlandaio in Santa Maria Novella, entriamo nelle numerose chiese fiorentine, la accompagniamo nel quartiere abitato dai tintori, passeggiamo di notte per le strade poco sicure della città condividendo con Alessandra la paura di essere scoperti dalle ronde dopo il coprifuoco, con lei assistiamo al grande falò delle vanità indetto da Savonarola nel quale i fiorentini furono “inviati” a sacrificare quanto di più prezioso possedessero per eliminare ogni oggetto peccaminoso.
Le pagine del romanzo ci raccontano della condizione della donna, quella degli schiavi e della servitù nonché del trattamento riservato ai sodomiti da Savonarola e dai suoi seguaci.

“La nascita di Venere” è un libro avvincente sia grazie ai suoi bellissimi personaggi sia ad una trama magistralmente sviluppata che ci parla di passione, compromesso, arte, storia; un racconto che si tinge persino di giallo grazie ad una serie di inspiegabili omicidi a sfondo sessuale il cui colpevole sembra avvolto dal mistero.

Un libro assolutamente imperdibile per chiunque ami i romanzi storici.



martedì 9 settembre 2014

“Le due vie del destino” di Eric Lomax

LE DUE VIE DEL DESTINO
di Eric Lomax
VALLARDI
“Le due vie del destino” (titolo originale “The railway man”) è un romanzo autobiografico.

Fin da piccolo Eric Lomax ebbe una grande passione per le ferrovie e le locomotive.
Lasciò la scuola molto giovane perché non particolarmente motivato dalle materie che venivano insegnate ritenute troppo lontane dai suoi veri interessi.
Entrò all’età di sedici anni, dopo regolare concorso, a lavorare in posta partendo dalla gavetta.
Con lo scoppio della seconda Guerra Mondiale venne arruolato nei Corpi Reali dei Trasmettitori e, dopo diverse assegnazioni, venne inviato in missione in India e da qui in Malesia.
Il romanzo è il racconto dei suoi anni di prigionia in mano ai giapponesi.
Per un triste scherzo del destino, lui così appassionato di treni, venne proprio impiegato dai suoi carcerieri nella costruzione della ferrovia della morte tra Birmania e Siam insieme a migliaia di altri prigionieri.

Avevano intenzione di costruire una linea ferroviaria attraverso le aguzze catene montuose tra Birmania e Thailandia, un percorso così terribile che gli ingegneri coloniali britannici l’avevano rifiutato perché troppo pericoloso.

Quando i giapponesi scoprirono che Lomax e i suoi compagni erano riusciti a costruirsi una radio, seppur rudimentale, con la quale erano però in grado di ascoltare le trasmissioni delle forze alleate e della BBC, la loro situazione peggiorò.
In particolare la situazione di Eric Lomax si aggravò terribilmente nel momento in cui il Kempeitai, la famigerata polizia segreta giapponese, quella che potrebbe essere definita la Gestapo nipponica, scoprì che egli aveva disegnato una mappa del tracciato della ferrovia.
Le torture fisiche e psicologiche subite dai prigionieri furono terribili e quando Lomax riuscì a tornare in patria al termine del conflitto, non solo trovò un mondo completamente diverso e a lui estraneo, ma dovette combattere contro difficoltà e disagi per cercare riprendere in mano, almeno parzialmente, la propria vita.
Fu solo grazie all’amore di una donna straordinaria, la sua seconda moglie, incontrata guarda caso proprio in una stazione, una donna canadese di 17 anni più giovane di lui e all’aiuto fornitogli dalla Fondazione Medica per la Cura delle Vittime della Tortura, che Eric Lomax riuscì ad affrontare il suo passato e trovare persino il coraggio di incontrare personalmente il nemico, nella figura di Nagase Takashi, l’interprete che aveva preso parte alle torture inflittegli durante gli interrogatori del Kempeitai.

“Le due vie del destino” racconta una storia complessa, emozionante e inquietante; una storia terribilmente vera in tutta la sua tragicità e la sua crudeltà; racconta di come un uomo semplice e tranquillo sia stato costretto con ogni mezzo a trovare in se stesso una forza incredibile ed un coraggio straordinario per cercare di sopravvivere all’orrore nel quale la vita lo aveva scaraventato.
                                                                                                                            
A tutti noi è capitato di leggere romanzi ambientati durante il secondo conflitto mondiale o vedere film sull’argomento, potrei ad esempio citare il famoso film del 1957 diretto da David Lean intitolato “Il ponte sul fiume Kwai”, ma si rimane sempre nella finzione storica, spesso falsata e che ci fornisce una versione edulcorata dei fatti.
E’ ben diverso leggere le parole scritte da chi certe esperienze le ha vissute sulla propria pelle; ha dovuto convivere con la paura, la tensione, le torture; è stato costretto a subire una violenza psicologica spesso peggiore anche di quella fisica.

Ho scritto dell’insicurezza che divora la mente di un prigioniero e riempie i giorni di angosciosa tensione – l’unica cosa sicura era che ci trovavamo sull’orlo del precipizio.

E’ quasi impossibile riuscire a concepire che uomini come Lomax siano riusciti ad uscire vivi da un’esperienza di reclusione così estrema e devastante.

(…) avere qualche brandello di informazione serviva a tenerci su di morale e a farci sentire in contatto col mondo che avevamo perduto. Per noi prigionieri la radio aveva un’importanza difficile da immaginare, donava letteralmente senso e normalità alle nostre vite; ci sembrava, ora, di avere una ragione per vivere.

E’ spaventoso leggere di come questi prigionieri siano stati spogliati di ogni cosa, sfruttati e umiliati, ma soprattutto di come siano stati privati della loro dignità di esseri umani.

Anche leggere era una parte importante di quella normalità, un modo per conservare la dignità.

Tutti i torturatori furono condannati, solo uno di questi si salvò. Lomax lo cercò per tutta la vita, pur non avendo alcun nome, ma solo una voce.
La vendetta fu l’obiettivo a cui si aggrappò per trovare la forza di andare avanti.

Alla fine scoprì però che il suo carnefice, colui sul quale aveva concentrato tutto il suo odio, era stato egli stesso una vittima di quell’assurda guerra.
Nagase aveva vissuto anch’egli una vita fatta di incubi, schiacciato dal peso di ciò a cui era stato costretto ad assistere quando era un interprete del Kempeitai.

Lomax ebbe bisogno di vedere il dolore di Nagase per riuscire a convivere con il proprio e a superarlo.
Nagase a sua volta, nonostante avesse passato il resto della sua vita cercando di rimediare agli errori commessi, dedicandosi al ricordo di quanti erano morti per la costruzione della ferrovia, ebbe bisogno del perdono di Lomax per riuscire ad accettare almeno in parte le proprie colpe e cercare di convivere con esse.   

Bellissime le ultime pagine del libro, davvero intense e cariche di tensione emotiva.

Nei prossimi giorni uscirà al cinema il film tratto dal romanzo; a Colin Firth è stato affidato il ruolo di Eric Lomax (Jeremy Irvine interpreterà Lomax da giovane) mentre nel ruolo della seconda moglie di Lomax, Patricia, vedremo Nicole Kidman.
Sono piuttosto curiosa di scoprire come sarà questo adattamento cinematografico.
Indubbiamente Colin Firth, da ottimo attore qual è, sarà senza dubbio un interprete perfetto, sono solo un po’ scettica sul taglio che potrebbe essere stato dato alla storia perché, da quel poco che ho intravisto del trailer, ho avuto l’impressione che siano state apportate modifiche non proprio apprezzabili al testo originale.

Comunque sia, che decidiate di andare o no a vedere il film, il mio consiglio è quello di leggere assolutamente il libro perché “Le due vie del destino” è davvero una testimonianza unica e splendidamente scritta; un romanzo toccante e coinvolgente. 



mercoledì 3 settembre 2014

“Per sempre” di Susanna Tamaro

PER SEMPRE
di Susanna Tamaro
GIUNTI EDITORE
Nora e Matteo sono una coppia felice. Hanno un bambino di nome Davide e sono in attesa di un secondo figlio. Lui è un esperto chirurgo vascolare. La loro è una vita perfetta.
Una domenica però al rientro da una gita, la macchina di Nora sbanda e precipita da un viadotto dell’autostrada.
Matteo che segue la moglie con la propria auto, assiste impotente alla scena, costretto a guardare il terribile rogo che sta distruggendo tutta la sua famiglia.
L’uomo è annichilito dal dolore oltre che dal dubbio, istillatogli in seguito agli accertamenti della polizia stradale, che l’incidente sia stato provocato volontariamente da Nora.
Ogni giorno sprofonda sempre di più nell’abisso: inizia a mentire ai genitori, si stordisce con gli alcolici e trascura il lavoro.
Alla morte del padre, grazie ad una lettera di questi in cui lo esorta a non arrendersi e a perseguire quella “nobiltà dell’animo” che sempre aveva cercato di insegnargli e che a sua volta lui aveva appreso da suo padre, scatta qualcosa in Matteo che finalmente comprende che è giunto il momento di ricucire i pezzi della propria esistenza.
Lascia definitivamente il lavoro all’ospedale e si trasferisci sui monti.
Decide di tornare alla terra, alle cose semplici, ai ricordi di quando da piccolo, ospite a casa dei nonni, passeggiava per i campi.
Osservare la natura lo riavvicina alla vita: il cielo stellato, il trascorrere delle stagioni, la vicinanza degli animali selvatici e l’impegno di prendersi cura di quelli domestici.
Giorno dopo giorno Matteo ritrova se stesso e lassù, sulla sua montagna, dopo aver riparato il proprio cuore ferito è pronto ad aiutare chiunque il caso conduca alla sua porta.
La sua casa è aperta a tutti, per ognuno c’è un pezzo di formaggio, un po’ di vino o anche semplicemente un bicchiere d’acqua fresca.
Matteo non esercita più la professione di cardiochirurgo, ora egli è un medico dell’anima, perché solo chi ha conosciuto un dolore tanto profondo e lacerante può avere la capacità di comprendere la sofferenza e il disagio degli altri.

E’ passato molto tempo da quando lessi “Va’ dove ti porta il cuore”, ricordo che quel libro mi aveva profondamente commossa, ma ricordo anche che mi aveva lasciato una tale malinconia addosso che, nonostante mi fosse piaciuto immensamente, mi ero ripromessa che mai mi sarei avvicinata di nuovo ad un libro di Susanna Tamaro.

Gabrielle Zevin ha scritto “Bisogna incontrare le storie al momento giusto. Le cose che ci colpiscono a vent’anni non sono necessariamente le stesse che ci colpiscono a quaranta, e viceversa. Questo è vero nei libri e anche nella vita”.
Ecco, forse io semplicemente non ero ancora pronta ad affrontare quella lettura, ad accettare certe verità che fanno inevitabilmente parte della vita di ogni essere umano.

Lo scorso anno una cara amica mi ha regalato “Per sempre” costringendomi così a confrontarmi per la seconda volta con un romanzo della Tamaro.
Ho ritrovato le stesse emozioni di quando lessi “Va’ dove ti porta il cuore”, ma probabilmente l’età più matura e le esperienze di vita, mi hanno fornito la forza di poter affrontare queste pagine in un modo più maturo, facendomi trasportare dall’intensità del racconto senza però venirne schiacciata.

Il filo conduttore del romanzo è il dolore della perdita e la capacità che ciascuno di noi ha di affrontarlo.
Non tutti riescono a superare il distacco nello stesso modo, così Matteo non ha la stessa forza che suo padre aveva dimostrato quando appena quattordicenne, per colpa della guerra, perse non solo la vista ma anche che la sorella e il padre.

“Per sempre” è la storia di un amore totale e profondo che supera le barriere del tempo e dello spazio; una lunga lettera ad una persona che fisicamente non c’è più, ma che è ancora ben presente nella vita del protagonista che si rivolge a lei quasi fosse ancora in vita.

Il lungo e faticoso percorso di guarigione che Matteo affronta offre al lettore moltissimi spunti di riflessione.

E’ più che umano quando succede qualcosa di terribile, interrogarsi sui “se” e sui “ma” per riuscire a capire se ciò che è accaduto potesse essere evitato in qualche modo.
Così come è proprio dell’essere umano porsi la fatidica domanda “Perché?” e arrovellarsi il cervello cercando di rispondere ad essa come se riuscire a farsi una ragione di quanto accaduto, dipendesse esclusivamente dal comprenderne le cause, come se non fosse possibile accettare semplicemente che tutto sia dipeso dal caso, dalla sorte, dal destino.

Il romanzo fa riflettere su ciò che davvero conti nella vita come l’importanza dei sentimenti, degli amici e della famiglia…

Solo invecchiando ci si rende conto della gravità di certe parole e tutto ciò che abbiamo mancato – per superficialità, per egoismo, per fretta – comincia a pesare sul nostro cuore, ma il tempo ormai è andato e non torna più.

Ci porta a meditare sul tempo che crediamo ci sia concesso in quantità illimitata, siamo sicuri che il futuro sia nostro e invece quanto meglio sarebbe cercare di vivere ogni giorno pienamente come se fosse l’ultimo a nostra disposizione perché basta così poco perché tutto finisca…

Divertirsi sembra ormai l’unico imperativo del tempo libero.

Che dire poi dell’insensata frenesia che ci coglie nel cercare di riempire ogni attimo, senza mai fermarsi a riflettere su ciò che vogliamo veramente, su ciò di cui abbiamo bisogno, su quello che ci piace davvero?

(…) questo mondo sempre di corsa, affastellato di cose, prigioniero di una volgarità che inquina ogni respiro. Non ho dubbi che la prima cosa che ti avrebbe irritato sarebbe stata senz’altro il rumore. Tra tutte le forme di violenza è quella più sottile, più devastante.

Il nostro assurdo e continuo bisogno di classificare le cose, le persone…

I primi tempi non riuscivo ad accettare questo continuo bisogno di trovare una definizione. Non esisti se non c’è un aggettivo, un nome che aiuti a sistemarti da qualche parte.

E soprattutto la sconsiderata idea che qualunque cosa facciamo debba essere finalizzata a ottenere qualcosa, ossessionati continuamente dalla smania di possedere più di quanto ci sia necessario…

“Qual è il suo lavoro?”
“Produrre le cose che mi servono per vivere.”
“Tutto qui?” commentano, stupiti. “Ma non è un vero lavoro!” 

“Per sempre” è un romanzo che attraverso la storia di un uomo riesce a raccontare la storia dell’umanità.
Un libro elegante e toccante che arriva dritto al cuore del lettore.