lunedì 30 maggio 2016

“La soffiatrice di vetro” di Petra Durst-Benning

LA SOFFIATRICE DI VETRO
di Petra Durst-Benning
 SUPERBEAT 
Lauscha è un piccolo villaggio della Turingia dove gli abitanti si guadagnano da vivere soffiando il vetro e dove tutti sanno tutto di tutti; un mondo chiuso dove la tradizione vuole che l’arte di soffiare il vetro sia totale appannaggio maschile. Le donne possono occuparsi esclusivamente della decorazione e del confezionamento.

La storia del romanzo si svolge alla fine dell’Ottocento. Il soffiatore Joost Steinmann muore all’improvviso lasciando sole le sue tre figlie: Marie (17 anni), Ruth (19 anni) e Johanna (22 anni).

Le tre ragazze, in serie difficoltà economiche, si vedono da subito costrette a trovare un’occupazione; impiegate presso la bottega del vetraio Wilhelm Heimer, scoprono fin da subito quando sia difficile dover lavorare sotto padrone.

Ognuna di loro però reagirà in modo diverso dinnanzi a questo drastico cambiamento di vita.

Johanna, la maggiore, sopporta meno delle sorelle la sua nuova condizione e, quando viene licenziata dopo un battibecco con il padrone, è felice di potersi sentire libera di accettare l’offerta di lavoro del distributore Friedhelm Strobel e trasferirsi durante la settimana lavorativa nella cittadina di Sonneberg.
Johanna rifiuta la proposta di matrimonio di Peter Maienbaum, il loro vicino di casa da sempre innamorato di lei, ansiosa di far vedere al mondo il suo vero valore, di imparare un mestiere interessante e ben retribuito, che le permetta di trattare con persone importanti e, perché no, imparare a vestire e conversare in modo raffinato.

Ruth invece, che fin da piccola sognava di poter sposare un giorno un principe polacco, si innamora di Thomas, uno dei figli di Wilhelm Heimer, e accetta di sposarlo vedendo nel matrimonio con questi un’occasione da non perdere.

Marie scopre nella bottega di Wilhelm Heimer la sua vera passione ovvero la decorazione, affascinata dai colori, dalle sfumature, dall’oro e dall’argento, Marie si rivela come la vera artista della famiglia.
Sarà proprio lei che, sfidando convenzioni e pregiudizi, farà rivivere la bottega del padre, diventerà lei stessa una soffiatrice di vetro e, grazie alle sue grandi capacità ed alla sua fervida fantasia, creerà le basi per quella che diventerà un’impresa tutta femminile.

Mentre Marie vivrà chiusa nel suo mondo fatto di colori, matite e bacchette di vetro,  Johanna e Ruth dovranno scontrarsi con la dura realtà, dovranno pagare per le loro scelte sbagliate ed avventate, ma tutte e tre insieme riusciranno a superare ogni avversità facendo in modo di riuscire a realizzare comunque i loro sogni, sempre restando fedeli a se stesse.

“La soffiatrice di vetro” è il primo volume di una trilogia. Questo primo libro può essere tranquillamente letto come un romanzo a sé, ma alla fine della lettura resta nel lettore  la forte curiosità di conoscere più nel dettaglio cosa accadrà veramente.
Inoltre troppi sono  gli interrogativi che restano aperti su alcuni personaggi primo tra tutti il misterioso Friedhelm Strobel del quale l’autrice getta in pasto al lettore solo brevi accenni e indizi della sua depravazione e della sua scellerata vita, per non parlare di quel passato perverso e corrotto che si riaffaccia insistentemente tra un capitolo e l’altro della storia.

Un romanzo che ha come protagoniste delle sorelle è di per sé un richiamo a diversi classici della letteratura: tra tutti possiamo ricordare i romanzi di Jane Austen, “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, ma il richiamo più forte è forse quello a “Storia di una bottega” di Amy Levy.
Proprio con quest’ultimo libro “La soffiatrice di vetro” ha in comune la capacità e la forza che le protagoniste dimostrano di possedere per riuscire a creare un’impresa commerciale in un mondo di uomini, sfidando le convezioni sociali e i pregiudizi della gente.

La scrittura della “La soffiatrice di vetro” appartiene al romanzo moderno; se la trama può richiamare il romanzo classico, la scrittura è però quella scorrevole di un romanzo contemporaneo in grado di catturare l’attenzione del lettore fin dalla prima pagina.

Petra Durst-Benning ci porta in un mondo affascinante, quello del vetro e della nascita delle decorazioni natalizie.
L’invenzione degli addobbi di vetro per gli alberi di Natale è effettivamente nata a Lauscha dove sembra che non ci fosse stato un singolo inventore di quest’arte, ma che la stessa si fosse sviluppata presso diversi artigiani del paese.
Si ritiene che la lavorazione delle prime sfere di vetro risalga alla meta del XIX secolo ovvero un po’ prima di quando l’autrice colloca la sua storia.
Altro dato storico è che realmente le decorazioni natalizie furono esportate per la prima volta negli Stati Uniti da Franklin Woolworth.

Il romanzo di Petra Durst-Benning ci accompagna dunque indietro nel tempo, all’origine di una tradizione ben radicata nel paese di Lauscha, che ancor oggi è conosciuta come la capitale del vetro della Germania, e lo fa regalandoci una storia intensa, emozionante e coinvolgente, le cui protagoniste affascinano il lettore fin da subito tenendolo incollato alle pagine, ammaliato da queste donne forti e fragili allo stesso tempo, così diverse tra loro eppure così simili nella loro tenacia di riuscire un giorno a realizzare i propri sogni.

“La soffiatrice di vetro” è un romanzo impreziosito da un gran lavoro di documentazione, un romanzo accattivante e particolare,  assolutamente da non perdere.

E a chi, come me, l’avesse già letto non resta che attendere la traduzione italiana degli altri due volumi  i cui titoli dovrebbero suonare più o meno come “”L’Americana” e “Il paradiso del vetro” ovviamente sperando che siano altrettanto avvincenti.






domenica 1 maggio 2016

“Quel diavolo di un trillo” di Uto Ughi

QUEL DIAVOLO DI UN TRILLO
Note della mia vita
di Uto Ughi
    EINAUDI     
Nato a Busto Arsizio il 21 gennaio del 1944, primo di quattro figli, fiero delle origini istriane della sua famiglia, gente tenace dignitosa, abituata alla vita dura, Uto Ughi è uno dei maggiori violinisti al mondo.
Il padre, di professione avvocato, era un umanista molto sensibile, quasi un filosofo e proprio nella casa paterna

Si creò un buon giro di amici, strumentisti dilettanti che erano soliti riunirsi con il maestro Coggi (…) per fare musica insieme.

All’epoca Uto Ughi aveva appena tre anni, ma era già evidente la sua smisurata passione per la musica quando si infilava sotto il pianoforte e, affascinato dalle note, rimaneva lì ad ascoltare.
Il maestro Coggi gli regalò allora un piccolo violino che dovette legargli con una cordicella al collo per evitare che lo strumento gli cadesse.

Coggi fu il primo insegnate al quale ne fecero seguito altri; all’età di nove anni Uto Ughi divenne l’allievo di George Enesco, per seguire le lezioni del quale era costretto a trasferirsi periodicamente a Parigi dove il maestro viveva. Dopo la morte di questi, le lezioni proseguirono con la sua assistente Yvonne Astruc.
A Siena frequentò per una decina d’anni, ogni estate, le lezioni all’Accademia Chigiana, prestigiosa scuola di alta formazione musicale che annoverava all’epoca allievi famosi quali Zubin Metha e Daniel Barenboim.

Un giorno Uto Ughi stesso verrà chiamato a svolgere funzione di docente all’Accademia Chigiana, mettendo a disposizione dei suoi allievi, non solo la sua virtuosa capacità di violista, ma anche quelle due doti che il Maestro ritiene ancor oggi indispensabili per essere un buon insegnante ovvero la pazienza e la perseveranza.
E' fondamentale inoltre che il docente non si imponga mai sull’allievo, ma cerchi piuttosto di convincerlo rispettando sempre la sua personalità.

Il libro è suddiviso in quattro parti.

Nella prima parte, intitolata “La vita e la musica”, Uto Ughi ci racconta della famiglia, dei primi approcci con le note, dei suoi docenti, del suo modo di intendere la musica, dei propri gusti musicali, dei primi concerti e della sua produzione discografica.

Nella seconda parte “La galleria dei ritratti” ci vengono presentate invece le figure dei musicisti che il violinista ha incontrato nella sua carriera e che lo hanno in qualche modo influenzato o con i quali ha condiviso parte della sua vita.

Con “I viaggi” Uto Ughi ripercorre le sue tournée in giro per il mondo: Giappone, Birmania, Messico, India, Israele, Africa per citarne alcuni fino alla sua amata Isola del Giglio ed alla Val di Fiemme, là dove Antonio Stradivari sceglieva gli abeti rossi adatti alla costruzione dei suoi violini.
In questa parte comprendiamo come il violista, lontano dai riflettori, sia in realtà un uomo che ama profondamente i viaggi, la natura, il silenzio, la riflessione e la letteratura.

Proprio a “Riflessioni e letture” è dedicata la quarta parte del volume. Dedicare quotidianamente una parte della giornata alla lettura è basilare per l’artista che ritiene che:

un giorno trascorso senza leggere è un giorno perduto

Uto Ughi in quest’ultima parte  riflette su svariati argomenti come politica, cultura, il tema della morte nella musica, le competizioni musicali, la funzione sociale della musica e ovviamente la letteratura parlando di autori a lui cari tra cui Jorge Luis Borges e Pablo Neruda, Dino Buzzati e Giovanni Papini.

Chiude il volume un bellissimo dialogo.


E’ una vita ricca di passioni quella che viene descritta in questo breve volume di appena poco più di 180 pagine. Poche pagine è vero, ma di un’intensità tale che se si volesse sottolineare i concetti importanti si finirebbe per sottolineare ogni singola riga.

Proprio per questo motivo è anche difficile riuscire a tirare le somme di questa interessante autobiografia dove ognuno troverà senza dubbio spunti di riflessione personali e al contempo potrà formarsi una propria idea dell’uomo e dell’astista Uto Ughi.

La mia impressione leggendo queste pagine è quella di un artista sempre attento ai dettagli, un perfezionista sempre alla ricerca del piccolo particolare che possa fare la differenza.
Un uomo di una cultura vastissima, attratto dal paranormale, un uomo curioso, aperto al mondo, ma allo stesso tempo molto concentrato su se stesso.

Ho apprezzato il modo in cui parla dei grandi artisti del passato, mi sarebbe piaciuto però leggere qualcosa anche sui giovani artisti. Leggendo queste pagine infatti  ho avuto l’impressione che l’autore abbia scelto volutamente di non esprimere opinioni sui contemporanei, quasi pensasse che nessuno di questi possa essere citato in quanto non all’altezza dei suoi predecessori e comunque dei violinisti appartenenti alla sua generazione.

Appassionante è l’amore con cui Ughi parla dei violini, strumenti dotati di un’anima.
Ogni grande artista ha un rapporto unico con il suo strumento e gli strumenti antichi hanno tutti una storia da raccontare.

E’ emozionante leggere di quanto a dieci anni il Maestro fece per la prima volta conoscenza con il suo Stradivari Kreutzer (famoso violinista al quale era appartenuto  e  dal quale prese poi il nome) costruito nel 1701 da Antonio Stradivari, strumento che incrociò nuovamente il suo cammino quando aveva sedici anni e che divenne da quel momento suo compagno di viaggio

Il violino ha un’anima parlava al mio cuore con una qualità di voce meravigliosa, comunicandomi la sua storia

Anni dopo un altro violino entrò a far parte della vita di Uto Ughi, uno dei più bei Guarnieri del Gesù “Rose”, costruito nel 1744, di cui l’ultimo proprietario fu il celebre violinista Arthur Grumiaux.

Lo Stradivari è perfetto, come un dipinto di Raffaello o di Tiziano: perfetto nel disegno, nel colore, nell’armonia delle forme. Il suo suono luminoso è congeniale per determinati autori, ma meno per altri.
(…) i Guarnieri. I loro violini hanno un suono dal timbro scuro, drammatico, struggente, che ricorda i colori caravaggeschi o i dipinti di Rembrandt.

Ascoltai Uto Ughi in concerto la prima volta quando avevo 11 anni, fu la mia prima volta ad un concerto sinfonico e grazie a lui mi innamorai immediatamente del suono del violino.
Questo è stato il motivo principale per cui ho deciso di dedicarmi alla lettura del libro e ancora una volta non sono stata delusa.

“Quel diavolo di un trillo” è consigliato non solo a coloro che amano il suono di questo magico strumento, ma anche a tutti coloro che come il Maestro pensano che

La musica è una via di amore, di libertà, di umanità. La musica va al di là della parola, delle barriere ideologiche che limitano la comprensione fra gli esseri umani: spalanca le finestre dell’anima lasciando intravedere una realtà più grande.