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mercoledì 16 agosto 2023

“Una notte a Firenze sotto Alessandro de’ Medici” di Alexandre Dumas

La vicenda narrata da Alexandre Dumas è nota. Siamo a Firenze dove i Medici sono tornati al potere grazie all’accordo stretto tra Carlo V e il papa Medici Clemente VII dopo il terribile Sacco di Roma.

Alessandro de’ Medici, duca di Firenze, era ufficialmente il figlio illegittimo di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, ma la verità più accredita lo vuole figlio illegittimo dello stesso Clemente VII.

Alessandro fu un tiranno nell’accezione più negativa del termine, violento e irascibile, impose il suo governo con la forza, procurandosi per questo molti nemici. Il suo stesso motto Non vuelvo sin vencer (Non ritorno senza vincere) era esso stesso indice del suo temperamento aggressivo e impulsivo.

Il Medici trovò la morte per mano di un lontano cugino Lorenzo (o Lorenzino), appartenente al ramo Popolano della famiglia Medici, che, dopo l’efferato omicidio, si guadagnò il soprannome di Lorenzaccio. Si narra che Lorenzo avesse sfruttato la passione per le donne di Alessandro per tendergli un agguato in casa propria e qui assassinarlo.

Il romanzo si apre con una breve prefazione in cui l’autore parla dell’Italia e di Firenze traendo alcune conclusioni, più o meno condivisibili, sull’indole e i costumi degli italiani e di come questi siano stati influenzati nel corso dei secoli dalla loro storia.

La trama, per quanto romanzata, mantiene un fondo di verità storica e non mancano alcune brevi digressioni atte a rafforzare la veridicità del racconto. Da segnalare forse solo qualche ingenuo anacronismo a favore della miglior resa della narrazione.

Di fatto quello di Dumas è il racconto di una storia d’amore.

Lorenzino è innamorato di Luisa ed è da lei ricambiato. Il duca Alessandro è invaghito della bella Luisa che è tra l’altro figlia di quel Filippo Strozzi sulla cui testa è stata posta una taglia di diecimila fiorini per aver congiurato contro il duca stesso. Alessandro assume a tratti quasi le caratteristiche di un Don Rodrigo di manzoniana memoria. Lorenzino si presta ad essere il mezzano degli intrighi amorosi del duca, ma la sua è solo finzione in quanto il suo unico scopo è quello di salvare l’amata e liberare Firenze dalla tirannia. 

“Una notte a Firenze sotto Alessandro de’ Medici” è un romanzo storico ottocentesco sebbene vi si riconoscano moltissime caratteristiche tipiche dei testi teatrali romantici sia nella resa della trama sia nella caratterizzazione dei vari personaggi.

Un testo forse più vicino, a mio avviso, alle opere teatrali di Friedrich Schiller anziché ai celebri romanzi di Dumas stesso, vuoi anche perché la trama stessa si presta massimamente ad una resa drammaturgia. Moltissimi sono anche i riferimenti al teatro all’interno del racconto stesso.

Ho letto il romanzo nella traduzione del 1861 di Vittoria D’Asti edita da Amazon Italia Logistica. Purtroppo, devo segnalare che il numero di refusi e di errori di stampa è davvero fastidioso soprattutto nella prima parte del volume.

Per cui, vivamente consigliata la lettura del romanzo in quanto, soprattutto se amate i classici, si tratta di un testo davvero interessante per ambientazione e periodo storico, ma altrettanto sconsigliato l’acquisto di questa particolare edizione perché davvero faticosa la lettura a causa dei tanti errori tipografici.




martedì 29 agosto 2017

“Intrigo e amore” di Friedrich Schiller (1759 – 1805)

INTRIGO E AMORE
di Friedrich Schiller
Edizioni Teatro Stabile di Genova
Scritto nel 1783, quando Schiller aveva appena 24 anni, “Intrigo e amore” è un dramma ambientato in un principato tedesco di cui non viene specificato il nome.

Il nobile Ferdinand, figlio dell’onnipotente presidente von Walter, si innamora ricambiato della figlia del suo maestro di musica, la bella e dolce Luise Miller.
Il presidente però, per da garantirsi un vantaggioso avanzamento di carriera, vorrebbe che il figlio sposasse la favorita del principe, Lady Milford.
Poiché quindi la passione di Ferdinand per Luise intralcia i suoi piani, von Walter chiede aiuto al segretario Wurm.
Wurm, che desidera in realtà fare di Luise la propria sposa, con uno stratagemma fa rinchiudere il padre della ragazza in prigione al fine di costringere questa, facendole crede sia l’unico modo per ottenere la scarcerazione del genitore, a scrivere una lettera nella quale dichiari il proprio amore al maresciallo von Kalb, un personaggio ben noto a corte, ma a lei totalmente estraneo.
L’inganno consiste nel fare trovare per caso la lettera a Ferdinand che, convinto così dell’infedeltà della ragazza, dovrebbe soccombere al volere del padre e accettare di sposare Lady Milford.
Ferdinand però, accecato dalla gelosia, avvelenerà Luise e subito dopo si suiciderà.

“Intrigo e amore” è un dramma che coniuga tragedia politica a tragedia amorosa.

Da una parte abbiamo una corte corrotta, un principe dissoluto e due personaggi come l’ambizioso presidente von Walter per il quale ogni cosa può e deve essere sacrificata per raggiungere il potere e soddisfare le proprie ambizioni e il segretario Wurm, un essere ripugnante e viscido (il suo stesso nome tradotto in italiano significa “verme”), la cui vita è dedicata a ordire trame e tessere inganni.

Dall’altra parte abbiamo la tragedia d’amore: i due giovani innamorati ai quali è interdetta la libertà di coronare il loro sogno d’amore perché appartenenti a due mondi diversi, lui il figlio di un nobile mentre lei la figlia di un semplice maestro di musica.

Il clima culturale nel quale Friedrich Schiller scrive “Intrigo e amore” (titolo originale dell’opera “Kabale und Liebe”) è quello dello Sturm und Drang e inevitabilmente, leggendo quest’opera, non si possono non richiamare alla mente certe analogie con alcune opere e personaggi shakespeariani, non dimentichiamo infatti che Shakespeare fu un grande modello per il teatro di quell’epoca.

Possiamo rivedere nella lettera incriminata che viene fatta trovare a Ferdinand un richiamo al fazzoletto di Otello, la furia cieca che la gelosia scatena in Ferdinad è la stessa furia che acceca il povero Otello.
La gelosia è un sentimento umano che si impossessa indistintamente di chiunque, giovane o vecchio, uomo o donna, ricco o povero, è un qualcosa che fa perdere il controllo, è qualcosa di insensato e, proprio per questo, non importa chi ne sia l’oggetto, perché ogni cosa può risultare credibile, persino che la virtuosa Luise possa davvero avere una tresca con il vanitoso e affettato maresciallo di corte von Kalb.

Se in Wurm possiamo intravedere alcune somiglianze con Iago nell’abilità di ordire inganni e superare quasi in quest’arte il personaggio shakespeariano; Ferdinand che, per essere stato ingannato ed essere vittima della propria gelosia, può essere accostato al personaggio di Otello, presenta nelle sue profonde crisi anche diversi tratti di Amleto.

Per l’amore contrastato e la morte degli innamorati potremmo essere indotti ad avvicinare “Intrigo e amore” ad una delle più celebri tragedie shakespeariane ovvero “Romeo e Giulietta”, ma il tragico finale e l’amore osteggiato sono in realtà le uniche due analogie con l’opera di Shakespeare.

Romeo e Giulietta non dubitano mai dello loro amore, non pensano mai che l’uno possa tradire l’altro e mai, neppure per un istante, ritengono che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che provano.

Ferdinand e Luise invece pur amandosi teneramente e intensamente, dubitano spesso dei loro sentimenti.
Ferdinand mette in dubbio l’amore di Luise già prima di trovare la lettera e non esita a incolparla di non amarlo abbastanza.
Quando lei si rifiuta di fuggire con lui, lui è già roso dal tarlo della gelosia e pensa che lei possa nutrire dei sentimenti per un altro uomo.
Entrambi, ma soprattutto Luise, non riescono a non sentirsi in colpa per ciò che sentono, loro stessi in fondo ritengono che il loro amore sia sbagliato perché non appartenendo alla stessa classe sociale, osano sfidare le convenzioni e ciò non è corretto.

Due parole vanno spese sul personaggio di Lady Milford, una figura femminile indubbiamente affascinante e che resta impressa nella memoria.
Secondo alcuni critici il suo è un personaggio indispensabile alla trama, ma la cui entrata in scena non è necessaria allo svolgimento della narrazione.
Tutto vero, ma non sarebbe facile rinunciare ad un personaggio della sua forza; personalmente trovo Lady Milford un personaggio estremamente romantico.
Persino nel confronto con Luise, nonostante sia così sprezzante nei confronti della ragazza che definisce una povera sciacquetta borghese, non si può non provare un po’ di compassione per lei che sa di aver perduto, ma nonostante il suo orgoglio ferito riesce a trovare comunque la forza di redimersi e di cambiare vita ripartendo da zero.

“Intrigo e amore” è un’opera che con i suoi intrecci, gelosie e menzogne è capace di affascinare e coinvolgere sia spettatori che lettori.

Friedrich Schiller è un autore a me molto caro e, per chi non l’avesse ancora letto, ricordo un altro post che ho pubblicato qualche tempo fa in merito ad un’altra opera dello stesso autore ovvero “I masnadieri”.






domenica 23 luglio 2017

“La missione teatrale di Wilhelm Meister ” di Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832)

LA MISSIONE TEATRALE
DI WILHELM MEISTER
di Johann Wolfgang Goethe
BUR Rizzoli
Wilhelm Meister, figlio di un commerciante di una piccola città imperiale, nonostante sia destinato a seguire le orme paterne, fin da piccolo manifesta una fervente passione per il teatro.
La sua vocazione teatrale in verità nasce quando, ancora bambino, assiste ad una rappresentazione di marionette organizzata dalla nonna per i propri nipoti.
Da quel giorno il gioco preferito di Wilhelm diventerà organizzare spettacoli con i burattini e, una volta cresciuto, mettere in scena vere e proprie rappresentazioni insieme agli amici.
A spingere il giovane Wilhelm definitivamente sulla strada del teatro sarà però la giovane attrice Marianne che diventerà anche la sua amante.
Un amore ovviamente contrastato dalla famiglia di lui che riuscirà a far sì che la liaison venga bruscamente interrotta.
Su consiglio del cognato, Wilhelm partirà per un viaggio allo scopo di comprendere meglio il mondo del commercio e nel frattempo cercare di recuperare alcuni crediti presso alcuni debitori dell’azienda di famiglia.
Inevitabilmente però il giovane non riuscirà a restare a lungo lontano dal suo mondo.
Si unirà ad una compagnia di attori e con loro girerà il paese cercando di dare voce alla sua aspirazione ovvero divenire attore e direttore di spettacolo nonché di scrivere egli stesso testi per il teatro.

Il personaggio di Wilhem Meister accompagnerà l’autore per buona parte della sua vita.
“La missione teatrale di Wilhelm Meister” è infatti solo un primo abbozzo di quello che sarà il secondo romanzo di Goethe intitolato “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” pubblicato nel 1796.
“La missione teatrale di Wilhelm Meister” si interrompe al 14° capitolo del VI libro mentre il romanzo pubblicato nel 1796 conta un totale di otto capitoli e un numero quasi doppio di pagine rispetto alla prima stesura.
Il romanzo fu probabilmente ampliato dall’autore al suo rientro dal viaggio in Italia che egli effettuò negli anni tra il 1786 e il 1788 e dal quale ritornò forte di nuove esperienze che ne determinarono una maturazione politica, sociale, umana e intellettuale.

Il testo di “La missione teatrale di Wilhelm Meister” in realtà è stato riportato alla luce solo nel 1911, fino a questa data l’unica versione conosciuta era quella pubblicata nel 1796.

Goethe riprenderà a raccontare le vicende di Wilhelm  Meister in un altro romanzo intitolato “Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister”, scritto tra gli anni 1820 – 1821, ma pubblicato solo nel 1829.

“La missione teatrale di Wilhelm Meister” ha un carattere più esasperatamente romantico rispetto a “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meiester” nel quale Goethe, giunto ad una maturazione intellettuale ed estetica, propone una concezione della storia e uno stile completamente diversi.
 “Gli anni di apprendistato di Wilhemn Meister” verrà riconosciuto dalla critica come il primo romanzo di formazione della storia della letteratura.

Ma ritorniamo ora al nostro libro oggetto di questo post ovvero “La missione teatrale di Wilhelm Meister”.
Wilhelm è un giovane la cui passione per il teatro lo porta a scontrarsi spesso con una realtà a lui sconosciuta e con un ambiente, quello degli attori di strada, lontanissimo da quello borghese nel quale è stato cresciuto.
Egli è un idealista e in quanto tale non può che soccombere dinnanzi a personaggi avidi per il quale il teatro è semplicemente un mezzo per sbarcare il lunario e nulla più.
Wilhelm è inoltre sempre combattuto tra il desiderio di realizzare il suo sogno e il rimproverarsi questo suo inconcludente bighellonare.
E’ conscio di non concludere nulla, ma allo stesso tempo è incapace di rinunciare alla sua vocazione nonostante sia tormentato dai sensi di colpa nei confronti della propria famiglia che sa di avere grandemente deluso.
Wilhelm Meister è buono, ingenuo e corretto e per questo viene regolarmente imbrogliato e raggirato dagli altri, tanto che alla fine persino il lettore inizia a stancarsi della sua ingenuità.

Rimarchevoli sono i personaggi femminili che offrono un ventaglio molto ampio di elementi distintivi: dalla piccola Mignon, un personaggio atipico, un ragazzina malinconica ed eccentrica; a Philine, la bella attrice vanitosa, capricciosa e provocante; ad Aurelie, triste e disperata, inquieta e infelice per amore tanto da riuscire a identificare perfettamente se stessa nel ruolo di Ophelia; e infine Madame Melina che proviene da un ambiente borghese come Wilhelm, ma al contrario di questi, non ha trovato alcun ostacolo nell’ambientarsi a vivere tra gente gretta e corrotta.

L’autore si rivolge spesso nelle sue pagine direttamente al lettore non facendo quindi mistero di aver scritto il romanzo per essere letta da un pubblico.

Goethe è esperto conoscitore dell’animo umano e attraverso i suoi personaggi ci racconta i sogni e le speranze degli uomini così come i disinganni e le disillusioni con i quali questi inevitabilmente devono fare i conti nella propria vita.

Stranissimo! Con nulla l’uomo sembra essere più in confidenza che con le proprie speranze e i propri desideri, che a lungo nutre e conserva in cuore, e tuttavia quando un giorno gli si fanno incontro, quando quasi lo importunano, egli non li riconosce, e ne rifugge.

Risulta bizzarro scoprire come, anche a distanza di secoli, il modo di sentire degli uomini e di affrontare il mondo non sia cambiato affatto.

Spesso desiderava con tutta se stessa sbarazzarsi di quella relazione a cui accennavamo sopra, il pensiero della quale si faceva ogni giorno più disgustoso. Ma come liberarsene? Ognuno sa come sia difficile per l’uomo avere il coraggio di fare un passo decisivo, e che a migliaia, piuttosto, ogni giorno che viene trascinano la propria vita alla bell’e meglio in un destino di clandestinità!

Il romanzo alterna pagine commoventi ed emotivamente coinvolgenti ad altre decisamente un po’ tediose e monotone.

Il ritmo è lento, il testo non sempre scorrevole e purtroppo, complice anche il numero di pagine abbastanza elevato, poco meno di quattrocento, “La missione teatrale di Wilhelm Meister” non si può certo ritenere un testo di facilissima e agevole lettura, ma resta pur sempre un romanzo comunque fondamentale per chiunque voglia cercare di approfondire meglio l’opera di Johann Wolfgang Goethe.




domenica 5 febbraio 2017

"La marchesa von O. – Il trovatello” di Heinrich von Kleist

LA MARCHESA VON O.
IL TROVATELLO
di Heinrich von Kleist
IL SOLE 24 ORE
Heinrich von Kleist (Francoforte 1777 – Berlino 1811) è considerato uno dei massimi drammaturghi e scrittori vicini al movimento romantico tedesco. Il suo capolavoro più conosciuto è forse il dramma “Il principe di Homburg”. Tra i suoi più celebri racconti invece possiamo ricordare uno tra i tanti  “La marchesa von O.”  di cui parleremo proprio in questo post.
Heinrich von Kleist visse una vita piuttosto travagliata, segnata da una persistente angoscia esistenziale, sempre alla costante ricerca di una illusoria felicità ideale impossibile da raggiungere.
La sua instabilità psichica lo portò a togliersi la vita insieme alla sua amica Henriette Vogel, malata terminale. La uccise infatti con un colpo di pistola, lei consenziente, per poi spararsi egli stesso un colpo alla testa.

L’edizione da me scelta è un volume della collana “I classici della domenica” in uscita con Il Sole 24 ORE.
In realtà il titolo fa riferimento al solo racconto “La marchesa von O.” ma, a sorpresa, terminata la lettura ci si imbatte inaspettatamente in un altro più breve racconto intitolato “Il trovatello”.

“La marchesa von O.” è ambientato in una città del nord Italia di cui l’autore volutamente non riporta il nome, ma ne indica solo la lettera iniziale “M”.
Gli stessi personaggi sono individuati solo attraverso una lettera puntata: il conte F., il signor G., il generale K. e via di seguito. Quasi che la vicenda narrata sia un fatto realmente accaduto e che l’autore voglia salvaguardare la privacy dei protagonisti della storia.
La marchesa, giovane vedova e madre di due bimbi piccoli, ha appena messo un annuncio sul giornale nel quale chiede al padre del bambino che sta aspettando di presentarsi poiché intenzionata a sposarlo.
Un annuncio quanto mai singolare che, oltre a stupire l’opinione pubblica, sfida ogni decoro e regola imposti dalla buona società.
Attraverso la tecnica del flashback l’autore inizia il racconto dell’antefatto che ha portato la marchesa a compiere questo gesto quanto mai singolare.
Qualche mese prima, mentre dimorava presso la fortezza del colonnello, suo padre, scoppiò improvvisamente una guerra ed il bastione venne conquistato dai soldati russi.
Durante l’assalto la marchesa era stata accerchiata da un manipolo di soldati pronti ad usarle violenza, ma questi furono messi in fuga da un ufficiale in comando dei russi, il conte F., che dopo averla condotta in salvo nell’ala destra del palazzo, la lasciò lì svenuta dove venne raggiunta in seguito dalla sue cameriere.
Alla marchesa ed ai suoi familiari venne permesso, come consuetudine in questi casi, di lasciare la fortezza incolume.
Dopo qualche tempo a Giulietta (questo il nome di battesimo della marchesa) ed alla sua famiglia giunse voce che il conte F. era purtroppo morto in battaglia.
Un giorno però egli si ripresentò, nello stupore generale, a casa della marchesa per chiedere la sua mano, impaziente di ottenere risposta positiva e disposto pure a rischiare la corte marziale, disobbedendo agli ordini, pur di non lasciare la casa finché non avesse raggiunto il suo scopo.
Rassicurato sul fatto che nessun altro pretendente sarebbe stato preso in considerazione fino al suo ritorno, si lasciò convincere a partire alla volta di Napoli.
Al rientro però trovò una situazione completamente mutata: la marchesa era stata cacciata di casa, ripudiata dal padre perché in attesa di un figlio illegittimo.
La marchesa, sconvolta dal suo stato, non ricordava assolutamente nulla; da qui il suo sconsiderato gesto di rendere pubblica la sua situazione purché venisse riconosciuta la sua innocenza.
Stranamente proprio il conte F. sembra non far caso a quanto accaduto e a credere all’innocenza della marchesa. E’ infatti lui il padre del bambino e, nonostante la marchesa acconsenta al matrimonio, dovrà passare un anno prima che Giulietta accetti la validità della loro unione.

“Il trovatello” è il secondo racconto del libro. Antonio Piachi, agiato mercante di Roma, parte alla volta di Ragusa, portando con sé il figlio Paolo, avuto dalla prima moglie. Lascia a casa ad attenderlo Elvira, la sua giovane seconda sposa.
Poco prima di arrivare a Ragusa, giunge la voce che la città sta per essere messa in quarantena a causa di un’epidemia.
La paura per l’incolumità del figlio vince su ogni interesse commerciale e Piachi decide quindi di tornare indietro.
Durante il viaggio di ritorno però un ragazzino malato, Nicolò, colpito dalla malattia gli chiede aiuto e quando sviene davanti a lui, Antonio non se la sente di abbandonarlo a se stesso.
Le guardie però li scoprono nell’albergo dove alloggiano e li scortano fino al lazzaretto a Ragusa. Qui si ammalano di peste sia il Piachi che il figlio Paolo, il primo riuscirà a guarire ma il bambino purtroppo non sopravvivrà.
Antonio Piachi torna quindi a casa portando con sé il giovane Nicolò, anch’egli guarito, che viene accolto come un figlio anche dalla sua giovane moglie.
Antonio ed Elvira riversano su di lui l’amore e le speranze che avevano un tempo riposto in Paolo, e sono molto orgogliosi del loro figliolo non fosse per la sua eccessiva passione per le donne e per la sua bigotteria che lo porta sempre più spesso ad intrattenere strette relazioni con il vicino convento dei monaci carmelitani.
Elvira custodisce però un segreto. La donna aveva perso l’amore della sua vita in giovanissima età, era infatti molto legata ad un giovane genovese che, quando lei era appena tredicenne, era rimasto gravemente ferito nell’impresa eroica di salvarla dalle fiamme. Per tre anni Elvira aveva assistito il giovane, dal nome Colino, presso la casa del marchese suo padre, ma nonostante le sue amorevoli cure il giovane morì. Proprio nella casa del marchese, Antonio conobbe Elvira e dopo la morte di Colino decise di portarla via con sé e sposarla.
Elvira non dimenticherà mai Colino tanto da tenerne un’immagine a grandezza naturale nella sua stanza.
Un giorno, al ritorno da una delle sue fughe notturne, Nicolò rientra abbigliato da antico patrizio genovese e la sua somiglianza con Colino è talmente forte che la povera Elvira crede che questi sia  tornato dal regno dei morti.
Nicolò scopre così il segreto della donna e, desideroso di vendicarsi perché crede che questa voglia allontanarlo dalle grazie di Antonio, decide di giocarle un brutto tiro.
In realtà il padre adottivo che a lui aveva intestato ormai tutto, cerca il modo di tornare sui suoi passi, non perché sobillato da Elivia, ma semplicemente perché irritato dalla condotta immorale del figlio.
Nicolò una sera cerca di approfittare della madre adottiva, ma viene colto sul fatto dal padre.
I genitori vorrebbero cacciarlo da casa, ma lui andandosene gli ricorda che in realtà ormai è lui il solo proprietario di tutti i loro beni.
Elvira muore a seguito della disperazione provata quella notte e Piachi, sconvolto dagli avvenimenti e dal fatto che lo stesso magistrato abbia dato ragione a Nicolò riguardo alle proprietà, affronta il figlio e lo uccide.
Condannato a morte, Antonio Piachi, arriverà addirittura a rinunciare per tre giorni all’assoluzione pur di essere sicuro di poter incontrare nuovamente il figlio adottivo all’inferno dove è sicuro che questi sia andato.

I racconti sono caratterizzati da una prosa scorrevole, frasi brevi e abbondanza di dialoghi. In entrambi Von Kleist usa sapientemente la tecnica del flashback: nel primo per narrare l’antefatto che ha portato la protagonista a mettere l’annuncio sul giornale e nel secondo per ricordare la vicenda di Elvira tredicenne.

“La marchesa von O.” affronta un argomento gradito all’autore ovvero il conflitto tra la rigida morale borghese ed il mondo delle passioni umane. La marchesa rimuove ciò che le è accaduto perché essa stessa vittima delle convezioni sociali, la colpa commessa è talmente grave da non poterne sopportare il peso.
Pur di riuscire a riabilitare se stessa però trova il coraggio di compiere un gesto estremo, scegliendo il rischio di compromettere irrimediabilmente la sua reputazione.
Lo stesso conte F., vittima di quelle stesse ipocrite convenzioni, ha un solo pensiero ovvero quello di sanare l’errore commesso attraverso un matrimonio riparatore.
Il tema affrontato fa von Kleist è il tema del contrasto tra le passioni forti e la razionalità; non c’è posto per il sentimento, perché in un mondo dove regna sovrana la rigida e bigotta morale borghese, dove l’ipocrisia fa da padrona, tutto deve esser ridotto al raziocinio ed alla forma.
Il racconto ha però uno sviluppo divertente e leggero e, nonostante la tematica, il risultato è una piacevole avventura al limite del credibile e dal finale piuttosto prevedibile.

“Il trovatello” invece ricorda molto le novelle boccaccesche, vuoi per la presenza della peste, vuoi per la stessa storia dell’amato morto la cui immagine Elvira tiene nella sua camera, quasi una novella Lisabetta da Messina che sospira sul vaso di basilico dove è sepolta la testa del suo Lorenzo.
Ma questa novella rivela molto di più del suo autore: per esempio ci fa capire  quanto la cultura classica abbia influenzato von Kleist.
Come non ricordare ad esempio il mito greco di Pigmalione? Egli scolpì la statua di Galatea innamorandosene perdutamente e, solo grazie all’intervento divino di Afrodite che le fece prendere vita, Pigmalione riuscì a coronare il suo sogno d’amore e sposare la sua fanciulla.
Nonostante la brevità della novella lo studio psicologico dei protagonisti è davvero moto accurato, vedi ad esempio le reazioni nervose che bloccano Elvira, il modo di elaborare il lutto per la perdita del figlio Paolo trasponendo l’amore per questi sul trovatello Nicolò, il rapporto di amore-odio che Nicolò prova nei confronti della madre adottiva.

L’indagine psicologica dei personaggi è il punto di forza delle opere di von Kleist. In entrambi i racconti i sentimenti ed i comportamenti dei protagonisti vengono studiati ed analizzati fin nei minimi particolari. Egli è ossessionato dalla mente umana e dalla sua follia, così come dai contrasti e dall’illusorietà della vita.
Ossessione che, non dimentichiamo, lo porterà a compiere un gesto estremo quale il suicidio.

“La marchesa von O.” al contrario de “Il trovatello” ha un esito positivo. Ai personaggi del primo racconto è concesso infatti il lieto fine: Giulietta è una donna forte che riesce a ribaltare la situazione a suo favore e ad uscirne vincitrice.
Nel secondo racconto non c’è invece salvezza per nessuno, né in questo mondo né nel al di là; addirittura Piachi vuole seguire Nicolò all’inferno.

Nonostante “La marchesa von O.” sia uno dei racconti più famosi di von Kleist “Il trovatello” è secondo me un racconto più riuscito rispetto al primo.
L’esito positivo della prima vicenda, il voler far credere al lettore che esista sempre una via d’uscita nella vita, sembra quasi una forzatura da parte dell’autore che ho avvertito più vero nel finale senza speranza e cupo del secondo racconto, un finale che sembra decisamente più vicino alle sue corde.

Heinrich von Kleist è un genio tormentato il cui modo di sentire e la sua familiarità con quel male di vivere così contemporaneo, lo fa risultare un autore moderno nonostante la sua data di nascita risalga a più di due secoli fa.





domenica 13 settembre 2015

“Keats. Lettere sulla poesia”

KEATS
LETTERE SULLA POESIA
a cura di Nadia Fusini
MONDADORI
Le lettere di John Keats sono una testimonianza fondamentale della sua attività letteraria.

Il suo epistolario contiene, infatti, non solo le più belle lettere mai pubblicate in lingua inglese, ma anche alcuni fondamentali principi della sua poetica.

L’epistolario di Keats copre un periodo di cinque anni; la selezione delle lettere del volume a cura di Nadia Fusini coprono il periodo che va dal 17 aprile 1817 (lettera a John Hamilton Reynolds) al 30 novembre 1820 (lettera a Charles Brown).

Le lettere sono caratterizzate da un tono intimo, modesto e familiare; nella fretta della scrittura a volte queste risultano persino un po’ sgrammaticate.
Sono dialoghi intrattenuti non solo con i famigliari (la sorella, i fratelli e la donna amata), ma anche con gli amici (Brown, Bailey, Haydon, Dilke solo per citarne alcuni), gli editori (John Taylor e James Augustus Hessey) e con personaggi del calibro di Percy Bysshe Shelley, che nutriva un’opinione altissima di John Keats.

A tal proposito molto interessanti ed esaustive sono le “Notizie sui corrispondenti di Keats” poste al termine del volume.

Due sono i temi principali delle lettere di Keats: la poesia ed il “pensiero dominate” della propria morte.

La vita di Keats era strettamente legata alla poesia; egli viveva, respirava poesia ogni attimo della propria vita, così che va da sé che non solo le lettere stesse contengano le poesie, ma le poesie stesse nascano proprio da queste.

Ho scoperto che non riesco a vivere senza la poesia – senza la poesia eterna – non mi basta metà della giornata – mi ci vuole tutta. Ho cominciato con poco, poi l’abitudine mi ha reso un Leviatano.
(lettera a Reynolds del 18 aprile 1817)

Secondo Keats al poeta non è necessaria l’individualità, ma piuttosto la perdita di essa.
La poesia dovrebbe venire all’uomo spontaneamente, naturalmente; la parola deve venire come “all’albero le Foglie, o non venire affatto (lettera a Taylor del 27 febbraio 1818).

La poesia dovrebbe essere grande, ma non indiscreta, qualcosa che ti entra nell’animo, ma non lo sconcerta, né lo stupisce, se non per il suo contenuto.
(lettera a Reynolds del 3 febbraio 1818)

La poesia per Keats non ha potere salvifico, salvare il mondo non può essere il suo scopo. La poesia è apertura verso l’al di là, verso il mondo dell’Altro.
La poesia è risposta al manifestarsi dell’infinito nel mondo finito delle cose e degli esseri, la poesia risiede tra il mondo dei sensi e quello del pensiero, il poeta vive sospeso tra i due mondi.

Il poeta non ha un’identità, non ha un io ed è la “più impoetica di tutte le creature”.
La più grande qualità che un poeta deve possedere per Keats è la Capacità Negativa qualità che egli riconosceva in massimo grado a Shakespeare, ovvero la capacità “di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”. (lettera a George e Tom Keats del 21 dicembre 1817).

Keats morì giovane, ad appena 25 anni, lasciandoci tra le sue opere sei odi tra le più belle che mai furono scritte, ma insoddisfatto della sua produzione, sempre in attesa di scrivere la poesia perfetta.

Bellissime le lettere a Fanny Browne, la donna amata dal poeta, che meritano senza dubbio un breve accenno.
Se siete comunque interessati alle lettere di Keats a Fanny, vi consiglio il volume “Leggiadra Stella. Lettere a Fanny Brawne” edito da Archinto.

Le lettere di John Keats a Fanny sono intense, commoventi e terribilmente romantiche.
Quando incontrò il poeta Fanny era una ragazza di appena diciotto anni allegra, vivace e curiosa, Keats invece era estremamente geloso, sospettoso, esigente, facilmente irritabile e spesso contradditorio. La loro storia d’amore fu profonda e tormentata.

Devo confessare che ti amo ancora di più perché credo che ti sono piaciuto per me stesso e nient’altro – ho incontrato donne che avrebbero voluto sposare una Poesia e si sarebbero date con tutto il cuore a un Romanzo.
(lettera a Fanny Brawne dell’ 8 luglio 1819)

Sono sempre rimasto stupefatto dinnanzi a chi moriva da martire per la religione – l’amore è la mia religione – io potrei morire per amore – potrei morire per te. Il mio unico credo è l’amore e tu il mio solo dogma. Mi hai rapito in virtù di un potere a cui non so resistere: eppure ho resistito fino a quando ti ho visto, e anche dopo che ti ho visto ho cercato spesso “di ragionare contro le ragioni dell’amore”. Non posso più farlo – la sofferenza sarebbe troppo grande – il mio amore è egoista – non respiro senza di te.

E malgrado questo sono contrario a vederti, non sopporto uno sprazzo di luce per poi tornare nelle tenebre.
(…)
Vorrei che tu mi infondessi un po’ di fiducia nel genere umano. Io non so trovarne nessuna – il mondo è troppo brutale per me – sono contento che ci siano le tombe – sono sicuro che non avrò riposo se non li.
(lettera a Fanny Brawne, agosto 1820)

Concludo il post con un'informazione definiamola di servizio. Per chi fosse interessato al libro, il volume è purtroppo attualmente fuori catalogo.
Io ho avuto la fortuna di riuscirne a reperire una copia anche se un po’ ingiallita presso una piccola libreria tra le giacenze di magazzino, ma nel caso non riusciste a scovarne alcuna, il consiglio è di dare un’occhiata ogni qualvolta vi troviate nei pressi di qualche bancarella di libri usati.

Buona caccia al tesoro!



domenica 24 maggio 2015

“I dolori del giovane Werther” di J.W. Goethe (1749 – 1832)

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
di Johann Wolfgang von Goethe

“I dolori del giovane Werther“ romanzo epistolare pubblicato nel 1774, procurò fin da subito al giovane Goethe un successo europeo e lo rese al tempo stesso il dominatore principale della scena letteraria tedesca.

Protagonista del romanzo è Werther, un giovane di buona famiglia, colto, amante del disegno e della letteratura classica.
Desideroso di allontanarsi dalla città trova rifugio a Wahlheim un villaggio della campagna tedesca e qui conosce Charlotte.

Lotte, orfana di madre, ha cresciuto da sola le sorelle ed i fratelli più piccoli ai quali è legata da profondo affetto; è una ragazza bellissima dotata di acume e di intelligenza non comuni.

Il carattere appassionato e l’anima ardente di Werther trovano piena corrispondenza in quelli di Charlotte che purtroppo però è già promessa sposa ad Albert, un uomo tranquillo, pragmatico e noioso.

Albert, pur comprendendo i sentimenti che legano Werther alla sua futura sposa, lascia che i due si frequentino concedendo egli stesso la propria amicizia al giovane Werther.

Werther, fortemente provato dall’intensità dei propri sentimenti che non riesce a reprimere, decide di allontanarsi da Charlotte.
Lascia Walhheim e accetta un posto presso un ambasciatore, ma ben presto disgustato dall’ipocrisia della società e avvertendo sempre più pesantemente la mancanza della donna amata, ritorna da lei che nel frattempo ha sposato Albert.

Al ritorno di Werther, Albert preoccupato che le malelingue possano nuocere al buon nome della moglie e della famiglia, chiede a questa di allontanare il giovane e di frequentarlo meno assiduamente.

Lotte vorrebbe compiacere il marito, ma si rende conto di quanto ormai lei stessa sia profondamente legata a Werther e un giorno questi riesce a strapparle un bacio.
Questo unico bacio sarà il congedo definitivo di Werther da Lotte e dalla vita stessa. Qualche ora dopo, infatti, il giovane si ucciderà con un colpo di pistola.

L’origine dell’opera ha una natura biografica. Goethe due anni prima di scrivere il romanzo si era innamorato di Charlotte Buff, la quale era fidanzata con il suo amico Kestner. Goethe aveva dovuto trovare la forza di rinunciare al suo amore impossibile e disperato, ma qualche anno dopo quegli stessi sentimenti repressi grazie alla sua forza di volontà e al suo invidiabile autocontrollo, trovarono vita attraverso le pagine del suo “Werther”, abbreviazione del titolo con il quale spesso viene ricordato il libro.

Werther è un eroe romantico, egli è l’anima gentile che detesta l’ipocrisia della società borghese incarnata invece da Albert che, al contrario di Werther, si sente a proprio agio nella routine.

I luoghi comuni e le convenzioni imposte dalla società sono liberamente accettati da Albert che le sente proprie mentre per Werther sono costrizioni dolorose e inaccettabili.
Proprio per questo Werther si trova a proprio agio con i bambini e con i contadini ovvero con quelle persone che possono essere identificate come anime semplici e pure.

In Werther troviamo la concezione totalmente romantica dell’amore e della natura propria dello Sturm und Drang e del successivo Romanticismo.

“I dolori del giovane Werther” colpirono l’attenzione di Ugo Foscolo che prese senza dubbio spunto anche dal romanzo di Goethe per scrivere il suo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”.

Werther e Ortis troveranno entrambi nel suicidio, nella negazione dell’essere, la sola possibilità di risolvere il conflitto tra natura e ragione, tra passione e dovere.
Per Goethe però è l’amore irrealizzabile ciò che porta il protagonista alla decisione di annientare se stesso, mentre per Foscolo oltre la disillusione dei sentimenti affettivi c'è anche la caduta di ogni illusione politica a portare il protagonista a questa decisione estrema.

Ho riletto “I dolori del giovane Werther” a distanza di anni e come la prima volta non sono riuscita a non farmi catturare dalla trama e lasciarmi coinvolgere dalla passione e dai sentimenti del protagonista.

Ho voluto riproporvi in breve qualche nota su quest’opera perché credo sia uno di quei libri la cui lettura sia irrinunciabile non solo perché influenzò tutta la letteratura successiva, ma soprattutto per la sua bellezza che a distanza di secoli riesce a riscuotere sempre un successo straordinario facendone uno dei classici più amati e famosi della letteratura mondiale.

“I dolori del giovane Werther” è uno di quei libri da tenere sul comodino per averlo sempre a portata di mano perché come diceva Italo Calvino:

D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.





sabato 25 aprile 2015

“John Keats” di Stephen Hebron

JOHN KEATS
di Stephen Hebron
THE BRITISH LIBRARY
Ho acquistato questo libro durante la mia recente visita alla Keats-Shelley House a Roma, visita irrinunciabile ogni volta che mi trovo nella Città eterna.

Sul sito della casa museo di Piazza di Spagna è in vendita la traduzione italiana del volume, ma al momento ne erano sprovvisti e così ho deciso di acquistare l’edizione originale in lingua inglese della British Library appartenente alla collana “Writers’ lives”.

Il volume è comunque di facile lettura anche per coloro che non sono madrelingua e la veste grafica è davvero piacevolissima.

Il racconto della vita del poeta è molto dettagliato. Hebron non solo racconta i fatti più importanti della vita di John Keats (Londra 1795 – Roma 1821), ma ci dà anche un quadro preciso del suo carattere.

Ci racconta dei suoi famigliari e dei molti amici che egli seppe legare a sé grazie al suo carattere aperto, al suo entusiasmo per la vita ed alla sua energia.

Leggiamo dei suoi viaggi, del suo amore per Fanny Brawne, delle sue aspettative attese e disattese, delle sue insicurezze, dei suoi momenti di felicità e delle sue paure, dei suoi successi, ma anche delle critiche che non gli furono di certo risparmiate.

Hebron non tralascia di informare a grandi linee il lettore sulla poetica di John Keats e lo fa spesso riportando versi tratti dalle opere oltre che stralci di lettere.

Proprio le lettere, caratterizzate da un tono intimo e colloquiale, hanno un fascino senza tempo e sono una fonte tanto inesauribile quanto fondamentale per conoscere a fondo non solo l’uomo John Keats, ma anche l’attività poetica dello stesso.

traduzione italiana
A detta di T.S. Eliot le lettere di Keats sono da ritenersi “le più straordinarie e le più importanti, che siano mai state scritte da un poeta inglese”.

Ricordo, per chi fosse interessato all’argomento, il libro edito da Mondadori “Keats. Lettere sulla poesia” a cura di Nadia Fusini, del quale spero di potervi parlare più dettagliatamente in un prossimo post.

John Keats” di Stephen Hebron è impreziosito da innumerevoli illustrazioni: troviamo, infatti, dipinti dell’epoca, riproduzioni dei luoghi, moltissimi ritratti del poeta oltre ad alcuni dei suoi famigliari e delle persone che fecero parte della sua vita e a lui furono strettamente legate tra cui Charles Wentworth Dilke, Charles Cowden Clarke, la stessa Fanny Brawne solo per citarne alcuni.

Sono inoltre interessanti le tavole che riproducono gli originali delle lettere e dei manoscritti del poeta.

Come avrete capito “John Keats” di Charles Hebron non può non far bella mostra di sé nelle librerie di tutti coloro che amano questo poeta che i pittori preraffaelliti classificarono pari a Dante, Omero, Chaucer e Goethe e che oggi viene ormai riconosciuto come uno dei più grandi poeti del romanticismo inglese e in verità non solo del periodo romantico.

“I think I shall be among the English Poets after my death” (John Keats)

Qualche foto della stanza di John Keats scattata durante la mia visita alla Keats-Shelley House 











lunedì 2 giugno 2014

“Come un incantesimo” di Carla Sanguineti

COME UN INCANTESIMO
di Carla Sanguineti
KAPPA VU
“Come un incantesimo” riporta il sottotitolo “Mary e Percy Shelley nel Golfo dei Poeti”, sottotitolo non proprio fedele perché, se è vero che ampio spazio è dato al periodo del soggiorno della coppia a San Terenzo, è pur vero anche che il libro abbraccia un arco di tempo molto più ampio che va dall’incontro di Mary e Percy fino alla tragica morte del poeta in mare con qualche accenno all’infanzia di Mary Shelley e alla vita turbolenta della madre di lei.

Che tipo di libro è “Come un incantesimo”? E’ un saggio o un romanzo? A tal proposito riporto le parole stesse della sua autrice:

Di qui il carattere ibrido di questo libro biografico, non saggio, anche se abbonda di riferimenti a testi, lettere, diari con titoli e date, e non romanzo, perché lo stile di narrazione che più vi si avvicina è limitata a poche pagine soltanto.

Ciò che ho apprezzato in particolare modo oltre ovviamente all’essere un testo ricco di citazioni e che riporta frammenti di poesie, stralci di corrispondenza, pagine di diari e quant’altro dei protagonisti, è il fatto che Carla Sanguineti abbia messo in primo piano la figura di Mary Wollstonecraft Godwin.

Carla Sanguineti, già autrice di diversi scritti su Mary, è alla guida dell’Associazione amiche e amici di Mary Shelley, associazione nata nel 1997 per far conoscere questa figura quasi dimenticata.

Mary Shelley fu una figura letteraria di grande spessore ma, troppo spesso oscurata dalla grandezza del celebre marito P.B. Shelley, viene ricordata quasi esclusivamente come autrice della sua opera più famosa “Frankenstein”.

Perché questo? Senza dubbio perché era una donna che viveva in un’epoca in cui il gentil sesso subiva forti discriminazioni ma soprattutto perché aveva scelto di vivere in un modo anticonvenzionale all’interno di una società conformista e bigotta.

Mary Shelley era figlia di Mary Wollnestoncraft, morta per le complicazioni del parto, la Wollnestoncraft era una donna dalla vita avventurosa che ebbe diverse relazioni burrascose sino al matrimonio con il padre di Mary, il filosofo William Godwin anch’egli personaggio molto singolare e dalle idee rivoluzionarie.
Con tali genitori la strada di Mary Shelley sembrava quindi già segnata.

Mary viveva nel ricordo della madre, leggeva e studiava i suoi scritti e nel contempo presenziava agli incontri con artisti, letterati, poeti, filosofi e scienziati che si riunivano nella casa del padre.

Non stupisce quindi che a soli 16 anni Mary decida di seguire il suo cuore e scelga di fuggire in Europa con l’allora ventunenne Percy Bysshe Shelley, poeta affascinante e di belle speranze che incarnava quegli ideali di cui tante volte aveva sentito parlare e discutere nella casa paterna. 

Shelley era all’epoca ancora sposato con Harriet Westbrook dalla quale ebbe due figli, ma quando questa si uccise, egli fu libero di sposare in seconde nozze l’amata Mary.

Shelley era un sostenitore del libero amore, nulla di strano quindi nel fatto che egli fosse sempre costantemente innamorato e che ebbe diverse relazioni con altre donne, tra cui la sorellastra di Mary stessa ovvero Claire Clairmont.
Claire a sua volta ebbe una breve storia con Lord Byron dalla quale nacque una figlia che morì in giovane età.

La storia degli Shelley e dei loro amici, tra i nomi più illustri ricordiamo Lord Byron e Polidori, personaggi con cui condivisero l’esilio forzato, allontanati dall’Inghilterra per la loro vita dissoluta, affascina il lettore moderno almeno quanto all’epoca aveva scandalizzato i loro contemporanei.

Non è facile oggi riuscire a comprendere quel loro mondo così esclusivo e profetico, quel senso di ineluttabilità e di sventura che così fortemente essi avvertivano gravare sulle loro giovani vite. Essi vivevano ogni istante come fosse l’ultimo, sfidando la morte e temendola allo stesso tempo. 

Carla Sanguineti in questo volume cerca di indagare e di spiegare la ragione di certi di comportamenti, di scoprire il perché di certe scelte di vita e lo fa analizzando e confrontando quanto di essi ci è rimasto: opere, diari, lettere…

“Come un incantesimo” ha un taglio indubbiamente diverso da quello dei soliti saggi su Mary e Percy Shelley, un taglio interessante ed avvincente che mette in evidenza la grande passione ed il grande fascino che queste figure letterarie hanno esercitato anche sull’autrice del libro.