domenica 24 maggio 2015

“I dolori del giovane Werther” di J.W. Goethe (1749 – 1832)

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
di Johann Wolfgang von Goethe

“I dolori del giovane Werther“ romanzo epistolare pubblicato nel 1774, procurò fin da subito al giovane Goethe un successo europeo e lo rese al tempo stesso il dominatore principale della scena letteraria tedesca.

Protagonista del romanzo è Werther, un giovane di buona famiglia, colto, amante del disegno e della letteratura classica.
Desideroso di allontanarsi dalla città trova rifugio a Wahlheim un villaggio della campagna tedesca e qui conosce Charlotte.

Lotte, orfana di madre, ha cresciuto da sola le sorelle ed i fratelli più piccoli ai quali è legata da profondo affetto; è una ragazza bellissima dotata di acume e di intelligenza non comuni.

Il carattere appassionato e l’anima ardente di Werther trovano piena corrispondenza in quelli di Charlotte che purtroppo però è già promessa sposa ad Albert, un uomo tranquillo, pragmatico e noioso.

Albert, pur comprendendo i sentimenti che legano Werther alla sua futura sposa, lascia che i due si frequentino concedendo egli stesso la propria amicizia al giovane Werther.

Werther, fortemente provato dall’intensità dei propri sentimenti che non riesce a reprimere, decide di allontanarsi da Charlotte.
Lascia Walhheim e accetta un posto presso un ambasciatore, ma ben presto disgustato dall’ipocrisia della società e avvertendo sempre più pesantemente la mancanza della donna amata, ritorna da lei che nel frattempo ha sposato Albert.

Al ritorno di Werther, Albert preoccupato che le malelingue possano nuocere al buon nome della moglie e della famiglia, chiede a questa di allontanare il giovane e di frequentarlo meno assiduamente.

Lotte vorrebbe compiacere il marito, ma si rende conto di quanto ormai lei stessa sia profondamente legata a Werther e un giorno questi riesce a strapparle un bacio.
Questo unico bacio sarà il congedo definitivo di Werther da Lotte e dalla vita stessa. Qualche ora dopo, infatti, il giovane si ucciderà con un colpo di pistola.

L’origine dell’opera ha una natura biografica. Goethe due anni prima di scrivere il romanzo si era innamorato di Charlotte Buff, la quale era fidanzata con il suo amico Kestner. Goethe aveva dovuto trovare la forza di rinunciare al suo amore impossibile e disperato, ma qualche anno dopo quegli stessi sentimenti repressi grazie alla sua forza di volontà e al suo invidiabile autocontrollo, trovarono vita attraverso le pagine del suo “Werther”, abbreviazione del titolo con il quale spesso viene ricordato il libro.

Werther è un eroe romantico, egli è l’anima gentile che detesta l’ipocrisia della società borghese incarnata invece da Albert che, al contrario di Werther, si sente a proprio agio nella routine.

I luoghi comuni e le convenzioni imposte dalla società sono liberamente accettati da Albert che le sente proprie mentre per Werther sono costrizioni dolorose e inaccettabili.
Proprio per questo Werther si trova a proprio agio con i bambini e con i contadini ovvero con quelle persone che possono essere identificate come anime semplici e pure.

In Werther troviamo la concezione totalmente romantica dell’amore e della natura propria dello Sturm und Drang e del successivo Romanticismo.

“I dolori del giovane Werther” colpirono l’attenzione di Ugo Foscolo che prese senza dubbio spunto anche dal romanzo di Goethe per scrivere il suo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”.

Werther e Ortis troveranno entrambi nel suicidio, nella negazione dell’essere, la sola possibilità di risolvere il conflitto tra natura e ragione, tra passione e dovere.
Per Goethe però è l’amore irrealizzabile ciò che porta il protagonista alla decisione di annientare se stesso, mentre per Foscolo oltre la disillusione dei sentimenti affettivi c'è anche la caduta di ogni illusione politica a portare il protagonista a questa decisione estrema.

Ho riletto “I dolori del giovane Werther” a distanza di anni e come la prima volta non sono riuscita a non farmi catturare dalla trama e lasciarmi coinvolgere dalla passione e dai sentimenti del protagonista.

Ho voluto riproporvi in breve qualche nota su quest’opera perché credo sia uno di quei libri la cui lettura sia irrinunciabile non solo perché influenzò tutta la letteratura successiva, ma soprattutto per la sua bellezza che a distanza di secoli riesce a riscuotere sempre un successo straordinario facendone uno dei classici più amati e famosi della letteratura mondiale.

“I dolori del giovane Werther” è uno di quei libri da tenere sul comodino per averlo sempre a portata di mano perché come diceva Italo Calvino:

D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.





domenica 17 maggio 2015

“L’Italia nello specchio del Grand Tour” di Cesare De Seta

L’ITALIA NELLO SPECCHIO
DEL GRAND TOUR
di Cesare De Seta
RIZZOLI
Il fulcro di questo saggio è il Paese reale, così come esso viene “scoperto” dalla coscienza europea in età moderna. La complessa e aggrovigliata esperienza del Grand Tour, viaggio di formazione della classe dirigente europea, fu un contributo rilevante alla cultura del cosmopolitismo, in cui è stato fondamentale il ruolo assunto dall’Italia come centro di aggregazione della civiltà nell’Europa moderna.
(tratto dall’introduzione)

Il saggio di Cesare De Seta è un viaggio nell’Italia vista con gli occhi dei tourists che nel corso dei secoli attraversarono il nostro paese regalandoci una specie di immagine di “unità nazionale” ancor prima che il paese stesso divenisse uno stato a tutti gli effetti.

L’Italia come nazione è uno stato giovane, ma agli occhi di coloro che la attraversarono nel passato, seppur una terra divisa politicamente, essa appariva come una terra unita spiritualmente in virtù del suo antico passato, ma anche grazie al suo comune patrimonio artistico ed alle sue incomparabili bellezze naturali.

L’Italia per la sua collocazione geografica e per ragioni legate più propriamente alla sua millenaria civiltà fu interessata dal passaggio di pellegrini fin dall’epoca medievale. Proprio dall’XI secolo inizia il racconto del prof. De Seta per soffermarsi poi ampiamente sui secoli XVII e XVIII, secoli interessati dal Grand Tour vero e proprio.

L’autore del saggio ha deciso di suddividere alcuni capitoli in base alla diversa nazionalità di appartenenza dei viaggiatori. Abbiamo così pagine dedicate al popolo britannico (inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi), al popolo francese e a quello tedesco.

Per stessa ammissione del prof. De Seta i viaggiatori di queste nazioni non furono i soli a viaggiare attraverso l’Italia. Ci furono, infatti, anche viaggiatori provenienti dal profondo nord e dall’est europeo, ma purtroppo a causa della mancanza di documentazione relativa ai loro viaggi, vuoi per la lingua in cui furono redatti i loro diari vuoi per la difficile reperibilità dei documenti, non è stato possibile per l’autore dare loro spazio all’interno di questo volume.

Pagina dopo pagina veniamo a conoscenza di quali siano state le modifiche a cui i viaggi furono soggetti nel corso dei secoli (mezzi di trasporto, spese, compagni di viaggio ecc.). 

Possiamo comprendere inoltre come nel corso degli anni si modificarono i gusti dei viaggiatori così che le stesse città visitate in un periodo storico piuttosto che in un altro cambiarono la loro forza attrattiva agli occhi dei tourists.

Interessante leggere di come al variare dei gusti dei viaggiatori in base al mutare delle mode e degli stili artistici/architettonici del tempo una città potesse essere dichiarata più o meno bella ed interessante di un’altra.

Non è poi da trascurare l’influenza che ebbero gli scavi archeologici e il conseguente interesse per le antichità.

Così ad esempio città come Napoli acquistarono nei secoli sempre più interesse e l’Italia meridionale e la Sicilia che all’inizio non erano neppure contemplate nelle guide turistiche nel corso dei secoli divennero pian piano delle tappe fondamentali.

Il numero impressionante di note e le nutrite fonti consultate fanno di “L’Italia nello specchio del Grand Tour” un saggio esaustivo e ben costruito.
Innumerevoli sono i personaggi di cui ci parla il prof. De Seta che hanno attraversato il nostro paese, alcuni molto famosi come Goethe altri sinceramente a me sconosciuti prima della lettura di questo volume.

Il libro è interessante, completo e approfondito, ma tutto ciò lo rende un testo non sempre scorrevole, spesso un po’ troppo impegnativo e a volte la sua lettura richiede un notevole sforzo di concentrazione da parte del lettore.

L’argomento trattato è comunque talmente singolare ed interessante che se non vi lascerete spaventare dalle difficoltà e deciderete di affrontarne la lettura, non rimarrete delusi ed ogni vostro sforzo sarà ampiamente ricompensato.





sabato 25 aprile 2015

“John Keats” di Stephen Hebron

JOHN KEATS
di Stephen Hebron
THE BRITISH LIBRARY
Ho acquistato questo libro durante la mia recente visita alla Keats-Shelley House a Roma, visita irrinunciabile ogni volta che mi trovo nella Città eterna.

Sul sito della casa museo di Piazza di Spagna è in vendita la traduzione italiana del volume, ma al momento ne erano sprovvisti e così ho deciso di acquistare l’edizione originale in lingua inglese della British Library appartenente alla collana “Writers’ lives”.

Il volume è comunque di facile lettura anche per coloro che non sono madrelingua e la veste grafica è davvero piacevolissima.

Il racconto della vita del poeta è molto dettagliato. Hebron non solo racconta i fatti più importanti della vita di John Keats (Londra 1795 – Roma 1821), ma ci dà anche un quadro preciso del suo carattere.

Ci racconta dei suoi famigliari e dei molti amici che egli seppe legare a sé grazie al suo carattere aperto, al suo entusiasmo per la vita ed alla sua energia.

Leggiamo dei suoi viaggi, del suo amore per Fanny Brawne, delle sue aspettative attese e disattese, delle sue insicurezze, dei suoi momenti di felicità e delle sue paure, dei suoi successi, ma anche delle critiche che non gli furono di certo risparmiate.

Hebron non tralascia di informare a grandi linee il lettore sulla poetica di John Keats e lo fa spesso riportando versi tratti dalle opere oltre che stralci di lettere.

Proprio le lettere, caratterizzate da un tono intimo e colloquiale, hanno un fascino senza tempo e sono una fonte tanto inesauribile quanto fondamentale per conoscere a fondo non solo l’uomo John Keats, ma anche l’attività poetica dello stesso.

traduzione italiana
A detta di T.S. Eliot le lettere di Keats sono da ritenersi “le più straordinarie e le più importanti, che siano mai state scritte da un poeta inglese”.

Ricordo, per chi fosse interessato all’argomento, il libro edito da Mondadori “Keats. Lettere sulla poesia” a cura di Nadia Fusini, del quale spero di potervi parlare più dettagliatamente in un prossimo post.

John Keats” di Stephen Hebron è impreziosito da innumerevoli illustrazioni: troviamo, infatti, dipinti dell’epoca, riproduzioni dei luoghi, moltissimi ritratti del poeta oltre ad alcuni dei suoi famigliari e delle persone che fecero parte della sua vita e a lui furono strettamente legate tra cui Charles Wentworth Dilke, Charles Cowden Clarke, la stessa Fanny Brawne solo per citarne alcuni.

Sono inoltre interessanti le tavole che riproducono gli originali delle lettere e dei manoscritti del poeta.

Come avrete capito “John Keats” di Charles Hebron non può non far bella mostra di sé nelle librerie di tutti coloro che amano questo poeta che i pittori preraffaelliti classificarono pari a Dante, Omero, Chaucer e Goethe e che oggi viene ormai riconosciuto come uno dei più grandi poeti del romanticismo inglese e in verità non solo del periodo romantico.

“I think I shall be among the English Poets after my death” (John Keats)

Qualche foto della stanza di John Keats scattata durante la mia visita alla Keats-Shelley House 











domenica 19 aprile 2015

“Tutto quello che so di noi” di Rowan Coleman

TUTTO QUELLO CHE SO DI NOI
di Rowan Coleman
SPERLING & KUPFER
Claire Armstrong è una bella ed appariscente quarantenne sposata con un uomo atletico ed affascinante di nome Greg più giovane di lei di quasi dieci anni.

Claire ha due figlie: la maggiore Caitlin ha vent’anni, nata da una storia con un compagno di università, la ragazza non ha mai conosciuto il padre; la piccola Esther invece di appena cinque anni è figlia di Greg, è la piccola di casa, eppure è la persona che nei momenti bui che i famigliari di Claire devono affrontare è colei che riesce, con la sua simpatia e la sua testardaggine, a tenere unita la famiglia.

Accettando di sposare Greg, Claire aveva messo in preventivo il rischio che la loro storia possa interrompersi bruscamente a causa della differenza d’età, ma mai avrebbe pensato che a dividerli sarebbe stato il morbo di Alzheimer, malattia che anni prima aveva colpito suo padre privandola così del genitore ad appena dieci anni.

Claire, è una donna forte, abituata a combattere ogni battaglia nella sua vita, è tenace e caparbia, ma anche lei deve arrendersi davanti ad una malattia degenerativa che non lascia scampo e che nel suo caso procede più velocemente che in altri.

Rowan Coleman è bravissima a descrivere gli stati emotivi non solo della protagonista, ma anche di ogni singolo membro della famiglia come ad esempio i dubbi, le ansie e le paure di Ruth, la madre di Claire, che dopo aver accudito fino alla morte il marito, è costretta a rivivere lo stesso dramma e a prendersi cura non solo della figlia, ma anche delle nipoti.

Greg è il primo a soccombere sotto i sintomi della malattia di Claire. La donna, infatti, sembra aver dimenticato ogni sentimento provato nei suoi confronti e per questo lo allontana ogni giorno di più perché per lei egli è ormai poco più che un estraneo.

Caitlin è spaventa perché non si sente ancora pronta a camminare con le proprie gambe e a farsi carico anche della sorella.
La giovane inoltre è in un momento difficile della propria vita, deve prendere decisioni importanti che cambieranno il corso della sua esistenza, e ora più che mai avrebbe bisogno di tutto l’affetto e la comprensione di Claire che invece proprio in questo periodo entra e esce continuamente dal mondo della realtà.

Esther è colei che al momento avverte meno il disagio della madre, troppo piccola per comprendere cosa stia accadendo. Vive tranquilla, felice per la vicinanza di Claire che, ormai confinata in casa a causa della malattia, è diventata la sua perfetta compagna di giochi.

E infine c’è Claire che lotta ogni giorno per restare se stessa, per restare aggrappata al mondo reale, ma che ogni giorno si perde un po’ più nella nebbia e ogni giorno fa sempre più fatica a ritornare al presente.  
Claire che combatte continuamente per non “perdere le parole”, costretta a lasciare il suo amato lavoro di insegnante, disperata e arrabbiata quando si accorge di non essere più in grado neppure di leggere le favole a Esther.
Terrorizzata dall’idea di essere dimenticata dalle persone care, presa dal panico all’idea di non poter essere presente nella vita delle figlie per aiutarle a crescere e sostenerle, stritolata dai sensi di colpa per aver inflitto alla madre un calvario che la povera donna aveva già vissuto con il marito e infine smarrita e afflitta per il dolore che suo malgrado sta infliggendo a Greg.

“Tutto quello che so di noi” è un libro emozionante e struggente. Una storia che coinvolge il lettore fin dalla prima pagina e che sa toccare il suo cuore. Un romanzo che fa commuovere fino alle lacrime, ma è capace anche di fare sorridere.

Rowan Coleman racconta una storia dolorosamente vera e lo fa con delicatezza e sensibilità straordinarie, riuscendo nonostante la drammaticità del racconto a regalare anche un po’ di speranza.

Si può dimenticare una data.
Si può cancellare un viso.
Si può confondere un nome.
Ma l’amore resta per sempre.

“Tutto quello che so di noi” è un libro “onesto”, vero e intelligente, un romanzo da leggere tutto d’un fiato.
                           



domenica 5 aprile 2015

“Reykjavík Café” di Sólveig Jónsdóttir

Reykjavík Café
di Sólveig Jónsdóttir
SONZOGNO

Sólveig Jónsdóttir, laureata in scienze politiche, ha lavorato come giornalista alla redazione di Lifestyle Magazine ed è ora a capo della comunicazione di Unicef Islanda.
Reykjavík Café è il suo primo romanzo.

La storia, come si evince dal titolo stesso, è ambientata nella capitale islandese; protagoniste del romanzo sono quattro giovani donne sulla trentina che apparentemente non hanno nulla in comune tranne una vita sentimentale deludente, confusa e insoddisfacente.
Le quattro donne non si conoscono tra loro, ma in un certo modo sono tutte legate al Reykjavík Café, un caldo ed accogliente bar nel buio inverno islandese.

Hervor è laureata in economia, ma lavora come barista al Reykjavík Café, lo stesso locale nel quale ancora studentessa aveva accettato di lavorare per mantenersi agli studi.
Ha una relazione con il professore con cui si è laureata, relazione iniziata ancora quando era una studentessa. Hervor non vive, si lascia vivere. Sogna di viaggiare e vedere il mondo, ma resta poi immobile, bloccata in una situazione sentimentale inconcludente e legata ad un posto di lavoro insoddisfacente.

Karen vive con i nonni sin dalla nascita, la madre l’ha abbandonata da piccola rifacendosi una vita lontano dall’Islanda e del padre non ha nessuna notizia.  La donna è in piena crisi emotiva perché deve superare una perdita molto importante che l’ha segnata profondamente. Non essendo stata in grado di trovare nessun modo per elaborare il lutto, ha scelto di annullare se stessa: così ogni sera esce di casa, si ubriaca fino a stordirsi ed ogni notte finisce nel letto di uno sconosciuto diverso.

Mìa vive con il compagno. Lui è un avvocato in carriera, lei una laureata in sociologia che trova lavori saltuari come commessa. Il rapporto tra loro non funziona, liti e riappacificazioni si susseguono giorno dopo giorno; fino a quando il compagno di Mìa le confessa di essersi innamorato di una collega e la lascia.
Mìa si ritrova sola, in una mansarda in affitto che non può permettersi, senza un lavoro, piena di debiti e una vita da ricostruire. Trascorre le sue giornate immersa negli scatoloni del trasloco senza riuscire a ritrovare il filo della sua vita, se mai ne avesse avuto uno…

E infine c’è Silja. Silja è un medico, lavora in ospedale. Il suo errore è stato quello di non voler vedere che tipo di uomo avesse accanto. Perdonato una volta colto sul fatto, nei dieci anni di matrimonio, il marito della donna non ha mai smesso di esserle infedele. Un giorno Silja torna dall’ospedale dopo il turno di notte e lo coglie nuovamente sul fatto.
Anche per lei una vita da ricostruire…

Il racconto inizia nel gelido e buio inverno islandese e termina all’inizio della primavera, una primavera ancora fredda, ma che rivela già i primi segni del risveglio della natura.
Così proprio come la natura ritorna alla vita, allo stesso modo le quattro donne si apriranno al mondo e tutte potranno intravedere una luce di speranza in fondo al tunnel.

Reykjavík Café viene presentato come una commedia brillante, le cui protagoniste potrebbero essere paragonate a delle novelle Bridget Jones. 
Mi rendo conto di andare controcorrente, ma io non ho visto nulla di tutto ciò.

L’unica per la quale mi sento di poter affermare che potrebbe avere qualche affinità con Bridget Jones, è forse Hervor. Tra tutte e quattro le donne sembra, infatti, quella più fresca, meno problematica o per lo meno alle prese con dei problemi molto più comuni.

Se vogliamo poi anche per quanto riguarda Silja la storia è quella di sempre: matrimoni falliti, tradimenti sono ormai all’ordine del giorno.

Indubbiamente il libro è ironico, divertente, fa spesso sorridere, ma non è per nulla così spensierato come lo si vuole fare credere.

Karen è una donna psicologicamente devastata ed i problemi di Mìa non sono legati solo al fatto di essere stata lasciata. Mìa ha serie difficoltà a trovare se stessa, perché non ha mai camminato con le proprie gambe, appoggiandosi prima alla famiglia e poi al compagno.

Fa sorridere, ma non è comunque divertente, scoprire che tutto il mondo è paese e che anche nella lontana Islanda, i laureati fatichino terribilmente a trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito.

Il romanzo è incentrato sulla difficoltà di rapportarsi con il prossimo.
Vengono affrontate non solo le problematiche dei rapporti famigliari genitori/figli o fratello/sorella, ma anche quelle legate all’amore e all’amicizia.
Vengono affrontati controversi interrogativi quali “può esistere solo amicizia tra un uomo e una donna?” oppure “se il partner ti ha tradito chi ti dice che non lo farà di nuovo?”
Tutte domande senza una risposta certa e, se vogliamo, anche un po’ scontate, ma sulle quali l’autrice è davvero bravissima a costringerci a riflettere ancora una volta attraverso la vita dei suoi personaggi e a farci scoprire aspetti forse mai presi in considerazione.

Vano è farsi illusioni, le difficoltà della vita e dei rapporti interpersonali sono uguali a tutte le latitudini del mondo, inutile scappare.
C’è un solo un sistema per sopravvivere dignitosamente ovvero essere se stessi e non permettere mai che siano altri a prendere le decisioni al nostro posto.
Per essere felici o almeno provare ad esserlo c’è solo un modo: amare di più se stessi,  ascoltarci di più e fare quello che sappiamo essere giusto per noi, senza farsi influenzare dagli altri.

Lo sapeva bene cosa desiderava fare, e non aveva voglia di mettersi a pensare se era meglio per lei o meno. L’aveva sempre fatto anche troppo di pensare e ripensare alle cose, e aveva sempre finito per non agire mai.
Era rimasta con un profondo rimpianto per le occasioni perdute. Così quella sera (…)
  
L’importante però è non disperare mai, rimanere saldi nelle difficoltà, perché la vita sa sempre regalare piacevoli sorprese come alle protagoniste del nostro libro.
Ricordate sempre che, vada come vada, dopo ogni inverno per quanto buio e triste questo possa essere stato, arriva sempre la primavera!




domenica 22 marzo 2015

“Gli innamorati di Sylvia” di Elizabeth Gaskell

GLI INNAMORATI DI SYLVIA
di Elizabeth Gaskell
JO MARCH 
Nel 1859 l’autrice trascorse una quindicina di giorni in vacanza a Whitby, una cittadina sulle coste dello Yorkshire. In questa nebbiosa località ebbe la possibilità di fare delle ricerche non solo sulle baleniere, ma anche sulle press gang ovvero le bande di arruolamento che forzosamente arruolavano marinai per la flotta britannica impegnata nella guerra contro la Francia.

“Gli innamorati di Sylvia” è ambientato negli anni delle guerre napoleoniche a Monkshaven, nome di pura invenzione letteraria, ma la cui descrizione del luogo corrisponde perfettamente alla località visitata dalla Gaskell ovvero una cittadina di mare dotata di un piccolo porto, caratterizzata da coste spazzate dal vento e da brughiere alle spalle del centro abitato.

Protagonista della storia è la bellissima Sylvia Robson, una ragazza che proprio per la sua avvenenza suscita nei suoi concittadini sentimenti e impressioni contrastanti.
Gli abitanti del luogo, infatti, si dividono tra coloro che, totalmente soggiogati dalla sua avvenenza, la ritengono una giovane virtuosa, simpatica e dolce e chi, forse anche un po’ roso dall’invidia, ritiene che, bellezza a parte, Sylvia sia in realtà semplicemente una ragazzina viziata e superba.
La verità come sempre sta nel giusto mezzo, la giovane, figlia unica adorata dai genitori, in realtà è sì una ragazzina viziata e a volte capricciosa, ma è anche una ragazzina gentile e di buon cuore.

La vicenda raccontata da Elizabeth Gaskell è in breve la storia di Sylvia e dei suoi due innamorati: il giovane e avvenente, nonché coraggioso e virile ramponiere Charley Kinraid e il cugino di Sylvia, il tranquillo e misurato Philip Hepburn, che lavora come commesso in un negozio di tessuti.

Ovviamente lo spirito ribelle e sbarazzino di Sylvia fanno sì che ella ricambi appassionatamente l’amore di Charley mentre Philip non riesce a darsi pace al pensiero di dover rinunciare per sempre alla cugina.

Quando Kinraid viene rapito dalla press gang, Philip unico testimone del fatto, non consegna il messaggio del rivale all’amata e, lasciandole credere che Charley sia morto affogato, cerca di prendere il suo posto nel cuore di Sylvia.

Gli eventi precipitano, il padre di Sylvia viene condannato per tradimento e impiccato, il lutto per il marito fa perdere la ragione alla signora Robson e Sylvia, trovandosi sola con una madre invalida, senza più punti di riferimento, decide che per il bene di tutti è giunto il momento che lei accetti di sposare quel cugino che fino a poco tempo prima aveva tanto disprezzato, ma che le è stato così vicino nel momento del bisogno.

Sylvia non riuscirà mai a dimenticare il suo primo e unico amore e inevitabilmente giungerà il giorno in cui Charley Kinraid farà ritorno a Monkshaven e allora…

“Gli amanti di Sylvia” non ha avuto particolare successo quando fu pubblicato, la stessa autrice definì il romanzo come la storia più triste che avesse mai scritto.

Il romanzo per nulla breve (569 pagine) è molto descrittivo e per questo forse non totalmente scorrevole, ma ad Elizabeth Gaskell va però riconosciuta una magistrale capacità nel riuscire a descrivere minuziosamente i paesaggi oltre ad una grande abilità nell’indagare profondamente gli animi dei suoi personaggi.

Sylvia e Philip crescono pagina dopo pagina e, col passare degli anni, mutano i loro animi e i loro caratteri. Ed è proprio questo mutare di sentimenti, di capacità di sentire, di relazionarsi gli uni con gli altri che la Gaskell è bravissima a descrivere.

Tutto questo fa sì che nel lettore l’impressione ricevuta da ogni personaggio non resti fissa ed immobile per tutta la storia, ma anzi vari insieme ad essa.
I personaggi riescono a stabile un’empatia con il lettore passatemi il termine “intermittente” ovvero a secondo del momento il lettore è portato a simpatizzare per un personaggio salvo poi trovarsi ad accordare la propria simpatia ad un altro, proprio perché l’evolversi della storia e il mutare dei sentimenti dei protagonisti lo coinvolgono al punto da renderlo totalmente partecipe del loro sentire.

Personalmente all’inizio ho detestato Philip, ma poi nonostante il pessimo comportamento da questi tenuto, ci sono stati momenti in cui sono riuscita a comprenderlo e perfino a scusarlo per il suo agire nonostante il suo essere meschino.

Sono stata forse meno clemente nei confronti di Sylvia, perché al di là delle disgrazie accadute, disgrazie che certamente avrebbero indebolito la forza di volontà di chiunque, non sono comunque mai riuscita a perdonarle una certa debolezza di carattere nel lasciarsi comandare dagli eventi e quel suo cercare di addossare ad altri colpe che in parte erano solo sue proprie.

Un personaggio che ho apprezzato invece moltissimo perché ritengo sia a tutti gli effetti il personaggio “romantico” per eccellenza, è quello di Hester, la donna innamorata da sempre di Philip e da questi considerata semplicemente una sorella.
E’ lei la vera eroina che per amore ha saputo piegarsi ed accettare il suo triste destino, mantenendo inalterati nel tempo i suoi sentimenti per l’uomo amato, senza mai tirarsi indietro davanti alle sue richieste per quanto dolorose per lei potessero essere.

“Gli innamorati di Sylvia” è edito da Jo March Agenzia Letteraria e per la precisione è la sesta uscita della collana “Atlantide” con la quale la casa editrice si ripropone di riscoprire capolavori dimenticati della letteratura.

Assolutamente da leggere l’introduzione di Francesco Marroni intitolata: “Scene da una tragedia domestica. Note per una lettura di Sylvia’s Lovers”.

Il volume inoltre, come tutti i libri della stessa collana, è corredato da interessanti ed esaustive note a piè di pagina.

A chi consiglierei la lettura del romanzo? Ovviamente a tutti gli appassionati di Elizabeth Gaskell e del romanzo vittoriano.

Se ancora non l'avete letto, vi ricordo un altro libro di Elizabeth Gaskell sempre edito da Jo March Agenzia Letteraria ovvero "Nord e Sud".
Infatti, per quanto io abbia apprezzato la lettura de “Gli innamorati di Sylvia”, “Nord e Sud” resterà sempre il mio romanzo preferito di questa straordinaria autrice.



domenica 22 febbraio 2015

“La dama e l’unicorno” di Tracy Chevalier

LA DAMA E L’UNICORNO
di Tracy Chevalier
BEAT
(edizione originale Neri Pozza)
Parigi 1490, Jean Le Viste ha deciso di commissionare a Nicolas des Innocentes la decorazione del salone della sua casa in Saint-Germain-des-Près.

Jean Le Viste è un uomo influente e ricco, non avvezzo agli scherzi, caparbio e prudente, un uomo che non ammette di essere contraddetto, che pretende che tutti facciano come dice e che lo facciano immediatamente.

Nicolas des Innocentes è un pittore che vanta una certa reputazione a corte come miniaturista, è solito dipingere piccoli ritratti che le dame regalano ai loro ammiratori.
Per arrotondare le proprie entrate però non disdegna di dipingere anche stemmi e decorare gli sportelli delle carrozze.

Jean Le Viste questa volta ha deciso di commissionargli qualcosa di diverso, il pittore dovrà creare i disegni per la Grande Salle, un ambiente lungo più di dieci passi e largo cinque, che saranno poi trasformati in arazzi di dimensioni tali che gli artigiani impiegheranno anni per tesserli.

Nicolas des Innocentes nonostante il timore per quanto richiestogli, non può certo permettersi di rifiutare una commessa così importante.

Jean Le Viste vuole che gli arazzi rappresentino la battaglia di Nancy, ma dopo aver incontrato Claude, la figlia maggiore del committente e sopratutto in seguito agli ordini tassativi ricevuti dalla moglie di Jean Le Viste, Geneviève de Nanterre, Nicolas accetta di cambiare il soggetto, convincendo lo stesso committente della bontà della nuova proposta.

A mon seul désir

Gli arazzi rappresenteranno la storia di una dama e del suo desiderio di sedurre un unicorno.

L’opera vede la sua realizzazione nella bottega artigiana del lissier George de la Chapelle a Bruxelles, bottega nella quale facciamo conoscenza degli altri protagonisti della storia: la moglie di George, Christine du Sablon, i loro figli George Le Jeune e Aliénor, il cartonista Philippe de Tour oltre a diversi personaggi minori che completano l’affresco creato dalla sapiente penna dell’autrice.

La vista
Ogni personaggio, capitolo dopo un capitolo, racconta in prima persona la propria parte di storia, una storia che si dipana tra Parigi e Bruxelles negli anni che vanno dal 1490 al 1492 e nella quale si intrecciano le vite dei vari protagonisti, tra l’ossessione di Nicolas per Claude e la vita nella bottega di George.

Qualche accenno all’opera descritta nel romanzo è però necessaria. Per prima cosa va detto che non si sa chi sia l’autore né chi realizzò materialmente gli arazzi del ciclo “La dama e l’unicorno”.
Il gusto
Non si conosce neppure il nome del membro della famiglia Le Viste che commissionò l’opera, ma per le tecniche di tessitura e per la tipologia degli abiti rappresentati, si propende per datare gli arazzi alla fine del XV secolo, pertanto diventa abbastanza plausibile riconoscere nel committente il nome di Jean Le Viste.
Inoltre la tecnica del millefleurs (o millefiori) indicherebbe il Nord Europa e più precisamente le botteghe di Bruxelles come il più probabile dei luoghi per la loro realizzazione.

Il tatto
Gli arazzi non rimasero di proprietà dei Le Viste per molti anni, infatti, alla morte di Claude la proprietà passò agli eredi del suo secondo marito.
Nel 1660 facevano bella mostra appesi alle pareti di un castello a Boussac, dove furono scoperti nel 1841 da Prosper Mérimé piuttosto mal ridotti.
Nel 1882 furono acquistati dal governo francese per essere esposti nel Museo di Cluny a Parigi dove sono ancor oggi esposti perfettamente restaurati.



Il ciclo di arazzi, realizzati in lana e seta, è composto da sei pannelli al centro di ognuno dei quali sono rappresentati la dama e l’unicorno.

L'olfatto
Cinque pannelli sono dedicati ai cinque sensi (il gusto, l’udito, la vista, l’olfatto e il tatto); il sesto pannello invece più grande degli altri e differente per stile, riporta in altro la scritta A mon seul désir e risulta di più difficile interpretazione.

Tracy Chevalier in questo romanzo, come in tutti i suoi libri, riesce a trasportare il lettore in un’epoca lontana grazie alla creazione di personaggi perfettamente descritti e, attraverso una scrittura piacevole e scorrevole, riesce ad affascinarlo con la storia dell’arte tessile degli arazzi.

L'udito
Il lettore non può che rimanere rapito e ammaliato davanti alla dettagliata e minuziosa descrizione di come nasceva questo tipo di opera d’arte; un manufatto dalla funzione a metà tra quella decorativa e quella più utile seppur prosaica di rendere l’ambiente più caldo e accogliente nelle fredde giornate invernali. 

Tracy Chevalier in “La dama e l’unicorno” ci racconta la storia, ovviamente di fantasia, di una delle opere più misteriose della storia dell’arte e lo fa con la bravura e con la grande competenza storica che la contraddistinguono, intessendo una trama che ci parla di amori impossibili, di seduzione, di lavoro, di fatica e di arte.

Se amate lo stile di Tracy Chevalier e i suoi romanzi, se avete apprezzato in modo particolare “La ragazza con l’orecchino di perla”, non potrete non rimanere conquistati dal fascino della storia narrata ne “La dama e l’unicorno”.



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