lunedì 30 maggio 2016

“La soffiatrice di vetro” di Petra Durst-Benning

LA SOFFIATRICE DI VETRO
di Petra Durst-Benning
 SUPERBEAT 
Lauscha è un piccolo villaggio della Turingia dove gli abitanti si guadagnano da vivere soffiando il vetro e dove tutti sanno tutto di tutti; un mondo chiuso dove la tradizione vuole che l’arte di soffiare il vetro sia totale appannaggio maschile. Le donne possono occuparsi esclusivamente della decorazione e del confezionamento.

La storia del romanzo si svolge alla fine dell’Ottocento. Il soffiatore Joost Steinmann muore all’improvviso lasciando sole le sue tre figlie: Marie (17 anni), Ruth (19 anni) e Johanna (22 anni).

Le tre ragazze, in serie difficoltà economiche, si vedono da subito costrette a trovare un’occupazione; impiegate presso la bottega del vetraio Wilhelm Heimer, scoprono fin da subito quando sia difficile dover lavorare sotto padrone.

Ognuna di loro però reagirà in modo diverso dinnanzi a questo drastico cambiamento di vita.

Johanna, la maggiore, sopporta meno delle sorelle la sua nuova condizione e, quando viene licenziata dopo un battibecco con il padrone, è felice di potersi sentire libera di accettare l’offerta di lavoro del distributore Friedhelm Strobel e trasferirsi durante la settimana lavorativa nella cittadina di Sonneberg.
Johanna rifiuta la proposta di matrimonio di Peter Maienbaum, il loro vicino di casa da sempre innamorato di lei, ansiosa di far vedere al mondo il suo vero valore, di imparare un mestiere interessante e ben retribuito, che le permetta di trattare con persone importanti e, perché no, imparare a vestire e conversare in modo raffinato.

Ruth invece, che fin da piccola sognava di poter sposare un giorno un principe polacco, si innamora di Thomas, uno dei figli di Wilhelm Heimer, e accetta di sposarlo vedendo nel matrimonio con questi un’occasione da non perdere.

Marie scopre nella bottega di Wilhelm Heimer la sua vera passione ovvero la decorazione, affascinata dai colori, dalle sfumature, dall’oro e dall’argento, Marie si rivela come la vera artista della famiglia.
Sarà proprio lei che, sfidando convenzioni e pregiudizi, farà rivivere la bottega del padre, diventerà lei stessa una soffiatrice di vetro e, grazie alle sue grandi capacità ed alla sua fervida fantasia, creerà le basi per quella che diventerà un’impresa tutta femminile.

Mentre Marie vivrà chiusa nel suo mondo fatto di colori, matite e bacchette di vetro,  Johanna e Ruth dovranno scontrarsi con la dura realtà, dovranno pagare per le loro scelte sbagliate ed avventate, ma tutte e tre insieme riusciranno a superare ogni avversità facendo in modo di riuscire a realizzare comunque i loro sogni, sempre restando fedeli a se stesse.

“La soffiatrice di vetro” è il primo volume di una trilogia. Questo primo libro può essere tranquillamente letto come un romanzo a sé, ma alla fine della lettura resta nel lettore  la forte curiosità di conoscere più nel dettaglio cosa accadrà veramente.
Inoltre troppi sono  gli interrogativi che restano aperti su alcuni personaggi primo tra tutti il misterioso Friedhelm Strobel del quale l’autrice getta in pasto al lettore solo brevi accenni e indizi della sua depravazione e della sua scellerata vita, per non parlare di quel passato perverso e corrotto che si riaffaccia insistentemente tra un capitolo e l’altro della storia.

Un romanzo che ha come protagoniste delle sorelle è di per sé un richiamo a diversi classici della letteratura: tra tutti possiamo ricordare i romanzi di Jane Austen, “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, ma il richiamo più forte è forse quello a “Storia di una bottega” di Amy Levy.
Proprio con quest’ultimo libro “La soffiatrice di vetro” ha in comune la capacità e la forza che le protagoniste dimostrano di possedere per riuscire a creare un’impresa commerciale in un mondo di uomini, sfidando le convezioni sociali e i pregiudizi della gente.

La scrittura della “La soffiatrice di vetro” appartiene al romanzo moderno; se la trama può richiamare il romanzo classico, la scrittura è però quella scorrevole di un romanzo contemporaneo in grado di catturare l’attenzione del lettore fin dalla prima pagina.

Petra Durst-Benning ci porta in un mondo affascinante, quello del vetro e della nascita delle decorazioni natalizie.
L’invenzione degli addobbi di vetro per gli alberi di Natale è effettivamente nata a Lauscha dove sembra che non ci fosse stato un singolo inventore di quest’arte, ma che la stessa si fosse sviluppata presso diversi artigiani del paese.
Si ritiene che la lavorazione delle prime sfere di vetro risalga alla meta del XIX secolo ovvero un po’ prima di quando l’autrice colloca la sua storia.
Altro dato storico è che realmente le decorazioni natalizie furono esportate per la prima volta negli Stati Uniti da Franklin Woolworth.

Il romanzo di Petra Durst-Benning ci accompagna dunque indietro nel tempo, all’origine di una tradizione ben radicata nel paese di Lauscha, che ancor oggi è conosciuta come la capitale del vetro della Germania, e lo fa regalandoci una storia intensa, emozionante e coinvolgente, le cui protagoniste affascinano il lettore fin da subito tenendolo incollato alle pagine, ammaliato da queste donne forti e fragili allo stesso tempo, così diverse tra loro eppure così simili nella loro tenacia di riuscire un giorno a realizzare i propri sogni.

“La soffiatrice di vetro” è un romanzo impreziosito da un gran lavoro di documentazione, un romanzo accattivante e particolare,  assolutamente da non perdere.

E a chi, come me, l’avesse già letto non resta che attendere la traduzione italiana degli altri due volumi  i cui titoli dovrebbero suonare più o meno come “”L’Americana” e “Il paradiso del vetro” ovviamente sperando che siano altrettanto avvincenti.






domenica 1 maggio 2016

“Quel diavolo di un trillo” di Uto Ughi

QUEL DIAVOLO DI UN TRILLO
Note della mia vita
di Uto Ughi
    EINAUDI     
Nato a Busto Arsizio il 21 gennaio del 1944, primo di quattro figli, fiero delle origini istriane della sua famiglia, gente tenace dignitosa, abituata alla vita dura, Uto Ughi è uno dei maggiori violinisti al mondo.
Il padre, di professione avvocato, era un umanista molto sensibile, quasi un filosofo e proprio nella casa paterna

Si creò un buon giro di amici, strumentisti dilettanti che erano soliti riunirsi con il maestro Coggi (…) per fare musica insieme.

All’epoca Uto Ughi aveva appena tre anni, ma era già evidente la sua smisurata passione per la musica quando si infilava sotto il pianoforte e, affascinato dalle note, rimaneva lì ad ascoltare.
Il maestro Coggi gli regalò allora un piccolo violino che dovette legargli con una cordicella al collo per evitare che lo strumento gli cadesse.

Coggi fu il primo insegnate al quale ne fecero seguito altri; all’età di nove anni Uto Ughi divenne l’allievo di George Enesco, per seguire le lezioni del quale era costretto a trasferirsi periodicamente a Parigi dove il maestro viveva. Dopo la morte di questi, le lezioni proseguirono con la sua assistente Yvonne Astruc.
A Siena frequentò per una decina d’anni, ogni estate, le lezioni all’Accademia Chigiana, prestigiosa scuola di alta formazione musicale che annoverava all’epoca allievi famosi quali Zubin Metha e Daniel Barenboim.

Un giorno Uto Ughi stesso verrà chiamato a svolgere funzione di docente all’Accademia Chigiana, mettendo a disposizione dei suoi allievi, non solo la sua virtuosa capacità di violista, ma anche quelle due doti che il Maestro ritiene ancor oggi indispensabili per essere un buon insegnante ovvero la pazienza e la perseveranza.
E' fondamentale inoltre che il docente non si imponga mai sull’allievo, ma cerchi piuttosto di convincerlo rispettando sempre la sua personalità.

Il libro è suddiviso in quattro parti.

Nella prima parte, intitolata “La vita e la musica”, Uto Ughi ci racconta della famiglia, dei primi approcci con le note, dei suoi docenti, del suo modo di intendere la musica, dei propri gusti musicali, dei primi concerti e della sua produzione discografica.

Nella seconda parte “La galleria dei ritratti” ci vengono presentate invece le figure dei musicisti che il violinista ha incontrato nella sua carriera e che lo hanno in qualche modo influenzato o con i quali ha condiviso parte della sua vita.

Con “I viaggi” Uto Ughi ripercorre le sue tournée in giro per il mondo: Giappone, Birmania, Messico, India, Israele, Africa per citarne alcuni fino alla sua amata Isola del Giglio ed alla Val di Fiemme, là dove Antonio Stradivari sceglieva gli abeti rossi adatti alla costruzione dei suoi violini.
In questa parte comprendiamo come il violista, lontano dai riflettori, sia in realtà un uomo che ama profondamente i viaggi, la natura, il silenzio, la riflessione e la letteratura.

Proprio a “Riflessioni e letture” è dedicata la quarta parte del volume. Dedicare quotidianamente una parte della giornata alla lettura è basilare per l’artista che ritiene che:

un giorno trascorso senza leggere è un giorno perduto

Uto Ughi in quest’ultima parte  riflette su svariati argomenti come politica, cultura, il tema della morte nella musica, le competizioni musicali, la funzione sociale della musica e ovviamente la letteratura parlando di autori a lui cari tra cui Jorge Luis Borges e Pablo Neruda, Dino Buzzati e Giovanni Papini.

Chiude il volume un bellissimo dialogo.


E’ una vita ricca di passioni quella che viene descritta in questo breve volume di appena poco più di 180 pagine. Poche pagine è vero, ma di un’intensità tale che se si volesse sottolineare i concetti importanti si finirebbe per sottolineare ogni singola riga.

Proprio per questo motivo è anche difficile riuscire a tirare le somme di questa interessante autobiografia dove ognuno troverà senza dubbio spunti di riflessione personali e al contempo potrà formarsi una propria idea dell’uomo e dell’astista Uto Ughi.

La mia impressione leggendo queste pagine è quella di un artista sempre attento ai dettagli, un perfezionista sempre alla ricerca del piccolo particolare che possa fare la differenza.
Un uomo di una cultura vastissima, attratto dal paranormale, un uomo curioso, aperto al mondo, ma allo stesso tempo molto concentrato su se stesso.

Ho apprezzato il modo in cui parla dei grandi artisti del passato, mi sarebbe piaciuto però leggere qualcosa anche sui giovani artisti. Leggendo queste pagine infatti  ho avuto l’impressione che l’autore abbia scelto volutamente di non esprimere opinioni sui contemporanei, quasi pensasse che nessuno di questi possa essere citato in quanto non all’altezza dei suoi predecessori e comunque dei violinisti appartenenti alla sua generazione.

Appassionante è l’amore con cui Ughi parla dei violini, strumenti dotati di un’anima.
Ogni grande artista ha un rapporto unico con il suo strumento e gli strumenti antichi hanno tutti una storia da raccontare.

E’ emozionante leggere di quanto a dieci anni il Maestro fece per la prima volta conoscenza con il suo Stradivari Kreutzer (famoso violinista al quale era appartenuto  e  dal quale prese poi il nome) costruito nel 1701 da Antonio Stradivari, strumento che incrociò nuovamente il suo cammino quando aveva sedici anni e che divenne da quel momento suo compagno di viaggio

Il violino ha un’anima parlava al mio cuore con una qualità di voce meravigliosa, comunicandomi la sua storia

Anni dopo un altro violino entrò a far parte della vita di Uto Ughi, uno dei più bei Guarnieri del Gesù “Rose”, costruito nel 1744, di cui l’ultimo proprietario fu il celebre violinista Arthur Grumiaux.

Lo Stradivari è perfetto, come un dipinto di Raffaello o di Tiziano: perfetto nel disegno, nel colore, nell’armonia delle forme. Il suo suono luminoso è congeniale per determinati autori, ma meno per altri.
(…) i Guarnieri. I loro violini hanno un suono dal timbro scuro, drammatico, struggente, che ricorda i colori caravaggeschi o i dipinti di Rembrandt.

Ascoltai Uto Ughi in concerto la prima volta quando avevo 11 anni, fu la mia prima volta ad un concerto sinfonico e grazie a lui mi innamorai immediatamente del suono del violino.
Questo è stato il motivo principale per cui ho deciso di dedicarmi alla lettura del libro e ancora una volta non sono stata delusa.

“Quel diavolo di un trillo” è consigliato non solo a coloro che amano il suono di questo magico strumento, ma anche a tutti coloro che come il Maestro pensano che

La musica è una via di amore, di libertà, di umanità. La musica va al di là della parola, delle barriere ideologiche che limitano la comprensione fra gli esseri umani: spalanca le finestre dell’anima lasciando intravedere una realtà più grande.





domenica 17 aprile 2016

“La tomba maledetta” di Christian Jacq

IL FIGLIO DI RAMSES
“LA TOMBA MALEDETTA”
di Christian Jacq
TRE60
“La tomba maledetta” è il primo volume della nuova attesissima saga di Christian Jacq.
Il secondo volume intitolato “ Il libro proibito” è già disponibile nelle librerie e nei prossimi mesi faranno seguito gli altri due volumi: “Il ladro di anime” (data di pubblicazione prevista 12/05/16) e “La città sacra” (data di pubblicazione prevista 07/07/16).

Christian Jacq (Parigi, 26 aprile 1947) non ha certo bisogno di presentazioni: scrittore ed egittologo, autore di svariati saggi e numerosissimi libri sull’antico Egitto, ha raggiunto il successo mondiale con la saga “Il romanzo di Ramses”, pubblicata in 29 paesi (il primo volume uscì in Italia nel 1995) con la quale ha battuto ogni record di vendita.

Questa nuova saga “Il figlio di Ramses” vede come protagonista Setna, figlio minore del Faraone Ramses II.

A differenza del fratello Ramesse, giovane valoroso ma pericolosamente ambizioso e sicuro di sé, Setna è uno scriba di grande saggezza, sacerdote di Ptah, è un mago che sa opporsi alle forze del male, un guaritore delle ferite del corpo e dell’anima.

Ma suo fratello aveva il gusto del potere, Setna quello della letteratura e della scrittura.

Il romanzo si apre con il furto di un vaso sigillato, il tesoro dei tesori, ad opera di un mago nero del quale tutti ignorano l’identità.
Il vaso contiene il segreto di Osiride, è provvisto di poteri immensi e custodisce il segreto della vita e della morte.
Colui che si è impossessato del prezioso e terribile oggetto ha ovviamente l’intento di annientare il Faraone e l’intero Egitto.

Ad aiutare Setna a risolvere il mistero che ha gettato il paese nel panico, troviamo Sekhet, la bellissima figlia diciottenne di un alto funzionario, esperta anch’essa di arti magiche.
Nonostante la giovanissima età Sekhet è già sacerdotessa di Sekhmet e dirige una corporazione di medici e farmacisti del grande tempio della dea a Menfi.

Sekhmet, dea dalla testa leonina, era una dea dal carattere molto pericoloso.
Essa inviava infatti contro l’umanità i suoi messaggeri col compito di diffondere morte e malattie, ma al tempo stesso nella sua qualità di protettrice dei medici, rivelava ai suoi adepti i metodi di guarigione.

Setna ama riamato Sekhet. Sekhet accetta decisa e felice la proposta di matrimonio dello scriba, ma ad ostacolare il coronamento del loro sogno d’amore c’è il fratello maggiore di Setna, Ramesse, che da tempo ha messo gli occhi sulla bella sacerdotessa e vorrebbe farne sua moglie, nonché la futura regina d’Egitto.

La corte del Faraone è un covo di vipere, il mago nero che è riuscito da introdursi nella “tomba maledetta” per trafugare il vaso è un essere molto potente, la sete di potere che anima i diversi personaggi, primo tra tutti lo stesso Ramesse, figlio maggiore del Faraone, è fortissima; Setna dovrà quindi essere molto abile se vorrà riuscire nella difficile impresa di salvare il proprio paese dall’imminente rovina oltre alla sua bella fidanzata la cui vita è ora in grave pericolo.

Grazie ad una scrittura fluida e semplice,  la lettura del romanzo risulta facile e scorrevole.

L’autore riesce a riportare in vita l’antico Egitto e a far respirare al lettore l’atmosfera del tempo conducendolo all’interno della magia dell’epoca.

Il risultato è un romanzo piacevole che si legge rapidamente, ma che lascia purtroppo col fiato sospeso in attesa di poter leggere la puntata successiva per conoscere l’esito della storia.

Fortunatamente il lettore non dovrà attendere molto perché, come precedentemente detto, la pubblicazione dell’intera saga dovrebbe concludersi prima della fine del 2016.






lunedì 21 marzo 2016

“I frutti del vento” di Tracy Chevalier

I FRUTTI DEL VENTO
di Tracy Chevalier
NERI POZZA
Nella prima metà dell’Ottocento James e Sadie Goodenough abbandonano la casa paterna di lui in Connecticut per cercare fortuna altrove.

Dopo tanto peregrinare decidono di fermarsi in Ohio scegliendo di stabilirsi nella Palude Nera, una landa desolata e malsana, dove il fango la fa da padrone e dove ogni anno la malaria si porta via qualcuno.

Per la legge dell’Ohio un colono diventa proprietario della terra sulla quale ha scelto di stabilirsi solo se riesce a piantare almeno 50 alberi da frutto.

Una sfida quasi impossibile in una terra come quella della Palude Nera, ma James Goodenough ama tutti gli alberi e ama soprattutto gli alberi di mele, adora il gusto delle Golden.
Accetta quindi fiducioso la sfida che la natura gli presenta e poco importa se la malaria nel frattempo si porta via cinque dei suoi figli:

Non era un sentimentale, lui, non piangeva neppure quando gli moriva un figlio: scavava la fossa e lo seppelliva. Però si faceva cupo e silenzioso se doveva buttare giù un albero, pensando a tutto il tempo in cui aveva gettato la sua ombra in quell’angolo della foresta.

Sadie invece non si abituerà mai a vivere nella Palude Nera, non riuscirò mai ad accettare di dover vivere ai confini del mondo, isolata da tutto e da tutti.
Si lascia presto andare al vizio del bere e i rapporti con il marito diventano ogni giorno più tesi.
Sadie odia James per la vita che l’ha costretta a fare, odia i suoi alberi e soprattutto odia le sue adorate Golden.

I figli rispecchiano in tutto i loro genitori, tutti tranne due di loro: la piccola, dolce e delicata Martha e Robert, un bambino serio e posato con una grande desiderio di apprendere ogni cosa suo padre possa trasmettergli.

Il libro si divide in due parti. Da una parte abbiamo il racconto della vita della famiglia Goodenough e dall’altra il racconto della vita di Robert Goodenough dopo che, all’età di appena nove anni, scappa da casa per cercare la propria strada e un po’ di serenità.

Il ritmo del libro è un ritmo lento, come lento è lo scorrere del tempo necessario perché un melo possa diventare produttivo.
Nonostante la lentezza però l’autrice riesce a tenere vivo l’interesse del lettore che continuamente si interroga su come potrà evolvere la storia.

I personaggi sono molto ben caratterizzati anche nel loro essere persone negative e dannose per sé e per gli altri.
Non si può dire infatti che la maggior parte dei componenti della famiglia Goodenough riesca a creare empatia con il lettore: in particolare Sadie e James pur così diversi tra loro, sono entrambi due personaggi distruttivi.
Entrambi sono totalmente concentrati su se stessi e sulle loro esigenze, totalmente incapaci di  prendersi cura della famiglia e dei propri figli.
Seppur è vero che all’epoca la concezione di maternità e paternità era molto diversa da quella attuale, il loro atteggiamento resta comunque davvero troppo sopra le righe e alcune pagine mettono a dura prova la pazienza del lettore.
Senza volervi anticipare nulla, ammetto che ciò che accade alla coppia è quanto di più meritato possa loro accadere ed il lettore non riesce a provare alcuna pietà nei loro confronti.

Il vero protagonista del racconto però è Robert Goodenough.
Bisogna riconoscere all’autrice di essere stata in grado di raccontare nel migliore dei modi la crescita di questo personaggio che, da bambino quieto ed intelligente, si trasforma in un uomo in grado di far fronte alle proprie responsabilità e capace, grazie all’aiuto della compagna, di affrontare e superare le ansie ed i traumi dell’infanzia che così profondamente l’hanno segnato, riuscendo a trasformarli in un punto di forza.

Tracy Chevalier ancora una volta ci incanta raccontandoci un preciso periodo storico e lo fa, come sempre, usando un punto di vista del tutto particolare.

Come ogni libro di questa autrice, anche “I frutti del vento” sono il risultato di approfondite ricerche. Alcuni personaggi che troviamo nel racconto sono veramente esistiti, tra loro John Chapman che vendeva meli in Ohio e Indiana; William Lobb che importava in Gran Bretagna piante e fiori originari delle Americhe e Billie Lapham che fu realmente uno dei proprietari del Calaveras Grove.

“I frutti del vento” è un romanzo crudo e a tratti violento, ma è anche un romanzo di speranza e buon auspicio.

Il finale, nonostante lasci un po’ di amarezza, è comunque un finale positivo, un finale che lascia credere che nonostante tutto la felicità è vicina e che la vita spesso offre una seconda possibilità.





lunedì 22 febbraio 2016

“La vita segreta e la strana morte della signorina Milne” di Andrew Nicoll

LA VITA SEGRETA E LA STRANA MORTE
DELLA SIGNORINA MILNE
di Andrew Nicoll
SONZOGNO
La signorina Jean Milne era una ricca donna anziana che amava viaggiare. Abitava da sola nella sua grande casa di 23 stanze, ma da anni ormai viveva ritirata in poche camere a pianterreno. 
La residenza così come il vasto parco che la circondava avevano assunto ormai un’aria trascurata di evidente abbandono.
La signorina Milne non aveva parenti tranne un nipote, figlio del defunto fratello, che incontrava molto raramente e che viveva a Croydon, nella periferia londinese.

La mattina del 3 novembre del 1912 alle ore 9.20, su segnalazione del postino di Broughty Ferry, la polizza si introduce nella casa dell’anziana donna dove rinviene il cadavere di questa in avanzato stato di decomposizione.

Senza ombra di dubbio la signorina Milne è stata brutalmente assassinata: nell’ingresso messo a soqquadro, il corpo della donna giace con il cranio fracassato.

Io narrante della storia è il sergente Fraser. A capo delle indagini troviamo il suo superiore, il commissario capo Sempill, che verrà affiancato quasi subito dal luogotenente Trench.
L’investigatore, appositamente giunto da Glasgow per aiutare il centro operativo di Broughty Ferry, dovrà supportare la polizia locale avvalendosi dei più moderni sistemi di indagine.

L’inizio del romanzo è un po’ confusionario e si fa un po’ fatica durante la lettura delle prime pagine ad inquadrare lo scopo di alcune informazioni che l’autore ci fornisce.
Dopo un primo momento di smarrimento, però le nebbie si diradano ed il lettore si ritrova immerso nella lettura di un romanzo che ricorda molto lo stile di scrittura di Agatha Christie.

Il ritmo della narrazione è piuttosto lento. Ogni processo investigativo viene sviscerato sin nei minimi particolari così che il lettore possa essere reso completamente partecipe del tentativo di risolvere il complicato caso.

Soluzione che sembra talmente difficile e lontana, che il commissario capo Sempill non si fa scrupolo di “comprare” testimoni e cercare di incastrare un innocente pur di chiudere il caso e non perdere la faccia.

Lentamente ci vengono svelati aspetti sconosciuti della personalità della defunta signorina Milne, che pagina dopo pagina perde ogni traccia della sua rispettabilità, apparendo per quello che realmente era, ovvero una donna eccentrica e licenziosa che non disdegnava la compagnia maschile.

La vicenda narrata in questo libro è tratta da una storia realmente accaduta, uno di quei casi che risultano ancor oggi irrisolti.
Su stessa ammissione dell’autore, non c’è nulla di inventato, i personaggi sono veramente esistiti anche se ovviamente i loro nomi sono stati cambiati; i dialoghi invece sono di pura invenzione.

Il romanzo, al contrario della realtà, avrà però un colpevole, un colpevole plausibile secondo le ricerche condotte dall’autore analizzando le tessere mancanti ed i buchi nelle indagini condotte dalla polizia all’epoca dell’efferato omicidio.

Il finale presenterà un colpo di scena inaspettato e decisamente ad effetto.

A chi consigliare questo libro? Agli appassionati del genere giallo, di Agata Christie e dei film di Hitchcock, ma soprattutto a chi ama quel particolare humour noir così profondamente britannico.





sabato 6 febbraio 2016

“L’innocente” di Alison Weir

L’INNOCENTE
di Alison Weir
SUPERBEAT
Lady Jane Grey (1537 – 1554) era la primogenita di Frances Brandon e di Henry Grey, duca di Suffolk.
Poiché Frances Brandon era figlia di Maria Tudor, sorella di Enrico VIII, Lady Jane Grey era a tutti gli effetti una discendente Tudor e, come tale, avente diritto alla corona.
Alla morte del cugino Edoardo VI, figlio di Enrico VIII, era quarta in linea di successione al trono, dopo le cugine Maria I ed Elisabetta I e dopo sua madre Frances Brandon, duchessa di Suffolk.

Novembre 1553: la sedicenne Jane Grey è rinchiusa nella Torre di Londra dopo il processo che ha decretato la sua condanna a morte per alto tradimento.
Alla morte di Edoardo VI, grazie alle manovre del duca di Northumberland, consigliere del re, Jane Gray viene dichiarata Regina D’Inghilterra, ma il suo regno ha vita brevissima, solo nove giorni, dal 10 al 19 luglio 1553.
Maria, che gode del favore popolare, è infatti subito dichiarata legittima sovrana e, salita al trono, fa imprigionare Jane Grey.

Alison Weir ha pubblicato 21 libri tra romanzi, biografie e saggi di argomento storico.

“L’innocente” è stato il suo romanzo d’esordio, il libro con cui per la prima volta l’autrice ha deciso di lasciarsi alla spalle la rigidità della disciplina storica e di far correre a briglia sciolta la propria fantasia.
Nonostante ciò però Alison Weir ha scelto di restare fedele alla realtà storica. I fatti e gli eventi di cui parla sono realmente accaduti e la maggior parte dei personaggi del romanzo sono realmente esistiti.
L’autrice è perciò ricorsa alla propria immaginazione esclusivamente per sopperire alla mancanza di testimonianze, là dove era necessario per rendere fluida la trama del romanzo.

“L’innocente” è un libro avvincente e scioccante al tempo stesso.
La vicenda di Lady Jane Grey, poi Lady Jane Dudley, non è molto conosciuta e questo romanzo ci regala proprio la possibilità di fare la conoscenza di un’eroina di altri tempi che seppe dimostrare una forza di carattere e un coraggio non comuni.

Il libro racconta la storia della vita di Jane Grey dalla sua nascita fino alla sua ingiusta e controversa morte.
Ci parla delle sue aspettative, delle sue paure e delle sue inclinazioni.
Ci racconta di una donna istruita e dedita allo studio, doti non comuni nelle donne dell’epoca; una personalità forte quella di Jane che, nonostante fosse condannata fin dalla nascita ad essere una pedina nello scacchiere politico dell’epoca, non smise mai di lottare per la propria libertà e per il proprio credo religioso, tentando fino all’ultimo di opporsi alla propria ascesa al trono che lei stessa riteneva illegittima.

Esiste un celebre quadro di Paul Delaroche (1797 – 1856)  “Il supplizio di Jane Grey” che rende perfettamente la scena della decapitazione descritta nel romanzo e della fermezza che la giovane donna seppe dimostrare fino all’ultimo istante della propria vita.

Frances Brandon e Henry Grey fin dalla nascita della piccola Jane, non riuscendo ad avere il tanto agognato erede maschio, avevano tramato nell’ombra al fine di raggiungere il potere attraverso la figlia.
E se in un primo momento avevano pur intravisto la possibilità del trono attraverso il matrimonio di Jane con l’erede di Enrico VIII, una volta compresa l’impossibilità di realizzare tale progetto, non avevano esitato ad abbracciare la rischiosa proposta di Northumberland di mettere Jane sul trono alla morte di Edoardo VI e lo avevano fatto senza farsi alcun scrupolo nei confronti della loro primogenita, tanto da sancire questa alleanza concedendo la sua  mano al viziato e piagnucoloso Guilford Dudley, figlio minore dello stesso Northumberland.

Alison Weir è riuscita a creare un affresco storico dell’epoca grandioso, la storia scorre veloce ed il lettore si trova coinvolto totalmente sin dalla prima pagina.

Ogni capitolo è affidato ai personaggi principali della storia che, in prima persona, raccontano gli avvenimenti a cui prendono parte, descrivendo così non solo l’avvicendarsi degli eventi, ma anche le loro emozioni, le previsioni e le aspettative nel succedersi degli eventi stessi.

L’autrice è riuscita ad entrare perfettamente nella mente dei propri personaggi, delineando delle figure credibilissime come la fiera e altera Francis Brandon, la dolce e protettiva balia Mrs Ellen, il subdolo Northumberland, il tanto affascinante quanto poco lungimirante Thomas Seymour, l’imprevedibile Elisabetta così simile al padre Enrico VIII, la triste e compassionevole Maria…

Le descrizioni sono talmente accurate che le figure dei protagonisti si stagliano nitide dinnanzi agli occhi del lettore, quasi che questi si trovasse di fronte ad uno schermo televisivo più che davanti alle pagine di un libro.

Il merito maggiore che va attribuito all’autrice è però quello di aver saputo raccontare magistralmente la vita di questa giovane eroina e dell’epoca in cui visse nel modo migliore possibile, senza trasformare la storia, come spesso accade, in un semplice romanzo rosa di ambientazione storica.

La storia della “Regina dei Nove Giorni” è una storia assolutamente da leggere.
Un libro imperdibile, una storia affascinante che spero presto un giorno possa essere portata sul grande schermo.






domenica 10 gennaio 2016

“Concerto di una sera d’estate senza poeta” di Klaus Modick

CONCERTO DI UNA SERA
D’ESTATE SENZA POETA
di Klaus Modick
NERI POZZA
Protagonista del libro è Heinrich Vogeler (1872 – 1942), pittore, architetto disegnatore e poeta, esponente dello Jugendstil.

Klaus Modick si è ispirato ai frammentari ricordi di vita di Vogeler, presenti nel suo “Werden”, ed ha attinto agli scritti di Rainer Maria Rilke, soprattutto ai suoi diari ed alle sue lettere, per scrivere questo romanzo che è un’opera di fantasia.

L’altro protagonista del libro è proprio Rainer Maria Rilke (1875 – 1926), autore di prosa e di poesie, considerato uno dei maggiori poeti di lingua tedesca del XX secolo.

Il romanzo racconta dell’amicizia tra i due artisti, del loro immediato riconoscersi come spiriti affini e del loro progressivo allontanamento fino al totale rifiuto l’uno dell’altro.

Il dipinto di Vogeler intitolato “Concerto” o “Sera d’estate a Barkenhoff” ed i numerosi continui cambiamenti apportati al quadro stesso dal pittore, fanno da filo conduttore del racconto.

L’ispirazione per il quadro nacque in Vogeler durante una delle tante serate d’estate a Worspwede, quando era solito riunirsi con gli amici artisti al Barkenhoff, la casa da lui progettata e poi costruita grazie all’eredità paterna.
Quella sera, come spesso accadeva, era presente alla riunione il suo caro amico Rilke, sempre gradito ospite nella casa delle betulle.
L’atmosfera rilassata della serata ispirò a Vogeler la scena del quadro nel quale avrebbe dovuto spiccare la figura dell’amico Rilke, quasi il dipinto volesse essere un omaggio alla sua presenza.
Nel corso dei mesi e degli anni però le cose cambiarono nella vita e questi cambiamenti furono apportati anche sulla tela.
Così il triangolo amoroso che vide protagonisti Rainer Marie Rilke, Clara Westhoff (futura signora Rilke) e Paula Becker, i continui ripensamenti del poeta verso l’una o l’altra donna, indussero nel corso del tempo Vogeler a rivedere la posizione del poeta, così come i sorrisi e le espressioni cupe delle donne vennero continuamente modificati sulla tela da parte del pittore.
Alla fine la figura di Rilke fu cancellata definitivamente e il quadro assunse per Vogeler un significato completamente opposto al sentimento che lo aveva ispirato.
Il dipinto che doveva essere simbolo di gioia, serenità, pace familiare divenne invece l’emblema della sconfitta, dell’assenza, del fallimento e della desolazione.

Il romanzo di Modick ci narra di una comunità di artisti il cui mondo è fatto di ambizioni e contraddizioni, un mondo dove i mecenati giocano un ruolo da protagonisti e dove l’arte diventa una mera merce sulla quale investire i proprio risparmi.

Vogeler è un artista che entra in crisi nel momento stesso in cui raggiunge il successo, proprio quando gli viene riconosciuto ogni merito, egli non è più certo di nulla, rinnega ciò che ha fatto e l’insoddisfazione che prova arriva a generare in lui il desiderio distruggere la propria opera.
Dubita di se stesso e del proprio talento, si sente invecchiare e avverte la terribile sensazione che l’ispirazione lo stia abbandonando per sempre.

Al contrario l’immagine che Modick ci porge di Rainer Marie Rilke è quella di un artista ambizioso, egocentrico, maschilista e opportunista; un uomo dalla dubbia moralità che pur di raggiungere il successo è disposto a tutto.

Grazie all’opera di Klaus Modick, seppur come già sottolineato opera di fantasia, possiamo fare la conoscenza del gruppo di artisti di Worpswede, villaggio paludoso della Bassa Sassonia, non lontano dalla città di Brema.

Questo gruppo di artisti ebbe origine nel 1889 grazie a tre artisti Fritz Mackensen, Hans am Ende e Otto Modersohn, il cui obiettivo era quello di rivendicare la loro indipendenza dalle grandi accademie artistiche e crearsi uno spazio ad imitazione del modello francese della scuola di Barbizon.

Negli anni successivi si unirono a loro Fritz Overbeck, Heinrich Vogeler, Carl Vinnen e due donne Paula Becker e Clara Westhoff, la prima sposò Otto Modersohn e la seconda divenne la moglie del poeta Rainer Marie Rilke.

Il poeta Rainer Marie Rilke pubblicò nel 1903 un libro sugli artisti di Worpswede.

“Concerto di una sera d’estate senza poeta” è un libro descrittivo e molto dettagliato dove ogni pensiero viene analizzato; tutto questo appesantisce notevolmente la scrittura rendendola purtroppo non proprio scorrevole.

I contenuti del romanzo sono interessanti e raccontati in modo davvero suggestivo; i protagonisti del libro sono figure affascinanti e molto seducenti.

La comunità di artisti di Worpswede non è tra le più conosciute ed il romanzo di Modick è un valido strumento per avvicinarsi a questo gruppo di artisti e invogliare il lettore a fare ricerche sull’argomento per approfondirlo.