domenica 3 settembre 2017

“Un uomo” di Oriana Fallaci (1929 - 2006)

UN UOMO
di Oriana Fallaci
BUR Rizzoli
“Un uomo” è la storia della vita di Alekos Panagulis, eroe della Resistenza greca.

Il 13 agosto 1968 Panagulis collocò delle bombe sotto ad un ponticello sul quale sarebbe dovuta passare l’auto del militare a capo del regime, Georgios Papadopulos.
L’attentato fallì, Alekos fu catturato, interrogato e condannato a morte. La pena fu poi commutata in prigionia a vita.
Fu segregato in una cella dall’aspetto di una tomba e per cinque anni egli subì atroci torture, torture che la Fallaci descrive minuziosamente nel libro.
Nel 1973, grazie ad una amnistia, Panagulis venne graziato.
Inviata in Grecia da “L’Espresso” per un’intervista, Oriana Fallaci conobbe Alekos il 23 agosto, proprio lo stesso giorno della sua liberazione.
I due si innamorarono immediatamente dando così inizio a una tormentata relazione sentimentale che durerà fino alla morte di Panagulis.
Non senza difficoltà Alekos ottenne il permesso di lasciare la Grecia per recarsi in esilio volontario.
Dopo la fine della dittatura rientrò in patria e, eletto in Parlamento, si adoperò in ogni modo per dimostrare che il potere era ancora in mano a quegli stessi uomini che appartenevano alla deposta Giunta.
Costantemente sorvegliato, utilizzando ogni tipo di sotterfugio e spesso a rischio della sua stessa vita, Panagulis riuscì a mettere le mani sui documenti compromettenti dell’Esa.
Fu proprio per impedirgli di rendere pubblici tali documenti che, il primo maggio 1976 all’una e 58 del mattino, Alekos Panagulis venne assassinato inscenando un incidente automobilistico. Il colpevole se la cavò in appello con una multa di cinquemila dracme per omissione di soccorso.

“Un uomo” è il libro di denuncia che Panagulis avrebbe scritto se non fosse stato assassinato.
Oriana Fallaci, quella compagna che egli definì “una buona compagna. L’unica compagna possibile” accolse la sua eredità, come lei stessa dichiarò, più per un dovere morale che per un dovere sentimentale.
Lo scopo del libro era accusare quel Potere che aveva ucciso l’uomo che amava, potere che proprio nel libro viene denunciato e condannato.

“Un uomo” di Oriana Fallaci è un racconto di avventure drammatiche che, sebbene scritto sotto forma di romanzo, narra fatti realmente accaduti e ogni elemento è esposto con una ricchezza di particolari precisa e minuziosa.

Alekos Panagulis era un uomo solo, un po’ folle e ossessionato dalle proprie idee. 
Un uomo, se vogliamo, anche egoista ed egocentrico, spesso troppo schiavo della superstizione.
Ma egli credeva nella lotta per la libertà ed era, sopra ogni cosa, un uomo assetato di giustizia.
Come egli stesso ripeteva la tragedia era nata in Grecia e si “basa su tre elementi: l’amore, il dolore e la morte”. Tre elementi che tormentarono Panagulis per tutta la vita facendone proprio un eroe tragico.

Il romanzo è però anche il racconto della storia d’amore tra la scrittrice e giornalista italiana e l'eroe .
Un amore totalizzante, passionale e tormentato che Oriana Fallaci descrive in modo attento e preciso, riuscendo a trasmettere al lettore tutta l’intensità e il dolore insiti in questo sentimento che la legava a Panagulis.

Lei che non si era ma riconosciuta in una Penolope che attende il ritorno dell’eroe, ma era lei stessa abituata a essere Ulisse e come tale a comportarsi, improvvisamente si era ritrovata per quest’uomo a tradire la sua stessa natura.

Nel libro leggiamo “Ti amavo a tal punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate”.

L’amore della Fallaci per Panagulis era un amore “più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile” da non poter più nemmeno concepire la vita senza di lui.

Era il loro “un amore del genere più pericoloso che esista: l’amore che mischia le scelte ideali, gli impegni morali, con l’attrazione e coi sentimenti”.

Domenico Procacci nella prefazione al romanzo scrive “in fondo ce lo meritiamo tutti di avere qualcuno che amiamo così tanto da non preoccuparci mai che il nostro sia un amore ricambiato, qualcuno che ci possa fare accelerare il cuore e fermare il respiro chiamandoci magari da lontano, e dicendo – Sono io, sono me”.

Se ero rimasta piacevolmente colpita dalle parole di Procacci, dopo la lettura del romanzo la mia sicurezza in merito è vacillata non poco.
Non dovrebbe essere l’amore qualcosa che ci fa stare bene? Come può definirsi amore qualcosa che snatura noi stessi? Che ci fa soffrire? Si può davvero augurare a qualcuno di provare un sentimento del genere che annichilisce e stordisce, che diviene “una fatica agonizzante”?
Eppure anche una donna come la Fallaci, una donna forte e indipendente, non è riuscita a sottrarsi a questo amore malato, un amore che lei stessa ha definito “più di una malattia, un cancro”, “un problema insolubile” a cui neppure la fuga avrebbe potuto porre rimedio.

La relazione tra la Fallaci e Panagulis durò solo tre anni, ma viene naturale interrogarsi su cosa sarebbe accaduto se Alekos fosse sopravvissuto.
Forse come lui stesso disse alla sua compagna poco prima di essere assassinato, la morte è un’alleata dell’amore perché in verità “nessun amore al mondo resiste se non interviene la morte. Se vivessi a lungo, finiresti col detestarmi. Poiché morirò presto, invece, mi amerai per sempre”.






giovedì 31 agosto 2017

“L’assassinio di Socrate” di Marcos Chicot

L’ASSASSINIO DI SOCRATE
di Marcos Chicot
SALANI EDITORE
Cherefonte e Socrate sono stati istruiti dallo stesso pedagogo, sono amici da quando avevano sette anni. Cherefonte è profondamente legato a Socrate uomo che stima più di ogni altro al mondo.

Un giorno Cherefonte si reca a Delfi ad insaputa dell’amico, poiché sa che il filosofo disapproverebbe il suo comportamento, per porre due domande all’oracolo; suo desiderio è infatti avere conferma di chi sia l’uomo più sapiente di tutti, ma soprattutto a lui preme conoscere la verità su come avverrà la morte dell’amico.
Apollo conferma che Socrate è il più saggio di tutti e, per quanto riguarda la sua morte, la Pizia risponde che “La sua morte sarà violenta, per mano dell’uomo dallo sguardo più chiaro”.

Inizia quindi con questo enigma il nuovo atteso romanzo di Marcos Chicot, autore acclamato dalla critica per il suo romanzo “L’assassinio di Pitagora”, libro che ha riscosso un vastissimo successo di pubblico e che è stato pubblicato in Italia sempre dalla casa editrice Salani così come l’altro suo romanzo “Il teorema delle menti”.

“L’assassinio di Socrate” è ambientato nella Grecia classica.

La guerra tra Sparta e Atene che per anni aveva insanguinato la Grecia è solo momentaneamente interrotta, la pace dei trent’anni sta ormai per concludersi e il conflitto sta per riaccendersi più aspro che mai.

A Sparta Deianira dà alla luce il suo secondo figlio. La donna, vedova di Eusseno, è stata costretta a sposare in seconde nozze il fratello di questi, Aristone.
Aristone, contrariamente al primo marito, è un uomo violento, arrogante e ambizioso.
Nipote di uno dei due diarchi che regnano su Sparta, ha ottenuto il permesso di sposare la cognata nonostante non avesse ancora compiuto 25 anni. Agli Spartani per legge non era infatti consentito contrarre matrimonio fino all’età di 30 anni.
Per paura che il bambino possa essere però creduto figlio del fratello deceduto, Aristone ottiene anche un’altra concessione dallo zio: nonostante il neonato, che ha ereditato gli occhi chiari della madre, sia sanissimo il Re Archidamo decreta che venga portato al Taigeto.
Il bambino però, all’insaputa di tutti, riesce a sopravvivere e viene adottato da Eurimaco, un vasaio ateniese che sta tornando in patria.
Durante il viaggio tra Argo ed Egea Eurimaco e la moglie incinta vengono assaliti da un gruppo di ladroni e Altea non sopravvive alle ferite riportate.
Eurimaco giunge ad Atene con un bimbo dagli occhi chiarissimi e dichiara a tutti che Perseo è figlio suo e della defunta moglie.

Eurimaco è amico di Socrate e di Cherefonte. Quest’ultimo, appena vede lo sguardo del neonato, impallidisce ricordando la profezia, ma Socrate gli intima che mai dovrà rivelare ciò che la Pizia gli aveva predetto perché nessuno è in grado di interpretare correttamente le parole degli oracoli inoltre gli fa promettere che avrebbe trattato il figlio dell’amico come se i suoi occhi fossero stati del colore del carbone.

Non vado oltre con la presentazione degli altri numerosissimi personaggi né vi anticipo alcun intreccio della storia perché davvero questo romanzo merita di essere assaporato pagina dopo pagina.
Il libro non è brevissimo, in realtà è un tomo di più di 700 pagine, ma non spaventatevi perché la lettura vola talmente che ho impiegato meno di una settimana a leggerlo.

La trama è avvincente e ben costruita, i personaggi così affascinanti che è impossibile interrompere la lettura e non si può fare a meno di correre a riprendere in mano il volume appena possibile.

Marcos Chicot ha saputo ricreare magnificamente il mondo nel quale ha ambientato il suo racconto.

Mentre leggiamo del dramma famigliare di Deianira, dell’amore contrastato di Perseo e Cassandra, dell’odio e della cattiveria che animano personaggi quali Aristone e Anito, entriamo anche in un mondo quello della Grecia classica descritto nei minimi particolari.

Non solo l’autore riesce a riportare in vita uomini come Pericle, Alcibiade, Euripide, solo per citarne alcuni, oltre ovviamene allo stesso Socrate, uno dei protagonisti del romanzo, ma Chicot riesce in verità a ricostruire quello stesso mondo così che ci sembra di sentirli parlare, ascoltare le loro idee e insieme a loro ci sembra di passeggiare nell’agorà, ammirare le opere della pinacoteca dei Propilei, partecipare alle assemblee, consultare l’oracolo di Delfi, assistere ai giochi a Olimpia, combattere battaglie, modellare, decorare e cuocere vasi.

Ciò che però più di ogni altra caratteristica fa di Marcos Chicot un grande romanziere è la sua magistrale capacità di riuscire a scrivere un romanzo dalla trama coinvolgente e ricreare sulla carta in modo rigoroso l’epoca in cui la storia è ambientata, senza mai risultare noioso o pedante, riuscendo a tenere incollato il lettore alle pagine grazie ad una scrittura scorrevole e un ritmo incalzante.

Nulla in questo romanzo è approssimativo e vago, ogni particolare è minuziosamente studiato e valutato, come in grande puzzle dove ogni tessera combacia perfettamente con l’altra. Qui ogni tessera rappresenta una materia: archeologia, storia dell’arte, storiografia, teatro, letteratura, politica e filosofia fanno da sfondo a una rievocazione storica perfetta.

“L’assassinio di Socrate” è un romanzo decisamente in grado di fare rivivere la storia davanti ai nostri occhi, pagina dopo pagina le immagini ci scorrono innanzi quasi le stessimo guardando su un grande schermo, ma non sono solo le immagini a colpire la nostra fantasia perché, grazie alla bravura dell’autore, ci sembra persino di essere in grado di percepire profumi e sapori di quella Grecia che pagina dopo pagina riaffiora dal passato.

Un romanzo imperdibile di cui, come avrete capito, è impossibile non innamorarsi grazie anche ai personaggi indimenticabili che ci regala.






martedì 29 agosto 2017

“Intrigo e amore” di Friedrich Schiller (1759 – 1805)

INTRIGO E AMORE
di Friedrich Schiller
Edizioni Teatro Stabile di Genova
Scritto nel 1783, quando Schiller aveva appena 24 anni, “Intrigo e amore” è un dramma ambientato in un principato tedesco di cui non viene specificato il nome.

Il nobile Ferdinand, figlio dell’onnipotente presidente von Walter, si innamora ricambiato della figlia del suo maestro di musica, la bella e dolce Luise Miller.
Il presidente però, per da garantirsi un vantaggioso avanzamento di carriera, vorrebbe che il figlio sposasse la favorita del principe, Lady Milford.
Poiché quindi la passione di Ferdinand per Luise intralcia i suoi piani, von Walter chiede aiuto al segretario Wurm.
Wurm, che desidera in realtà fare di Luise la propria sposa, con uno stratagemma fa rinchiudere il padre della ragazza in prigione al fine di costringere questa, facendole crede sia l’unico modo per ottenere la scarcerazione del genitore, a scrivere una lettera nella quale dichiari il proprio amore al maresciallo von Kalb, un personaggio ben noto a corte, ma a lei totalmente estraneo.
L’inganno consiste nel fare trovare per caso la lettera a Ferdinand che, convinto così dell’infedeltà della ragazza, dovrebbe soccombere al volere del padre e accettare di sposare Lady Milford.
Ferdinand però, accecato dalla gelosia, avvelenerà Luise e subito dopo si suiciderà.

“Intrigo e amore” è un dramma che coniuga tragedia politica a tragedia amorosa.

Da una parte abbiamo una corte corrotta, un principe dissoluto e due personaggi come l’ambizioso presidente von Walter per il quale ogni cosa può e deve essere sacrificata per raggiungere il potere e soddisfare le proprie ambizioni e il segretario Wurm, un essere ripugnante e viscido (il suo stesso nome tradotto in italiano significa “verme”), la cui vita è dedicata a ordire trame e tessere inganni.

Dall’altra parte abbiamo la tragedia d’amore: i due giovani innamorati ai quali è interdetta la libertà di coronare il loro sogno d’amore perché appartenenti a due mondi diversi, lui il figlio di un nobile mentre lei la figlia di un semplice maestro di musica.

Il clima culturale nel quale Friedrich Schiller scrive “Intrigo e amore” (titolo originale dell’opera “Kabale und Liebe”) è quello dello Sturm und Drang e inevitabilmente, leggendo quest’opera, non si possono non richiamare alla mente certe analogie con alcune opere e personaggi shakespeariani, non dimentichiamo infatti che Shakespeare fu un grande modello per il teatro di quell’epoca.

Possiamo rivedere nella lettera incriminata che viene fatta trovare a Ferdinand un richiamo al fazzoletto di Otello, la furia cieca che la gelosia scatena in Ferdinad è la stessa furia che acceca il povero Otello.
La gelosia è un sentimento umano che si impossessa indistintamente di chiunque, giovane o vecchio, uomo o donna, ricco o povero, è un qualcosa che fa perdere il controllo, è qualcosa di insensato e, proprio per questo, non importa chi ne sia l’oggetto, perché ogni cosa può risultare credibile, persino che la virtuosa Luise possa davvero avere una tresca con il vanitoso e affettato maresciallo di corte von Kalb.

Se in Wurm possiamo intravedere alcune somiglianze con Iago nell’abilità di ordire inganni e superare quasi in quest’arte il personaggio shakespeariano; Ferdinand che, per essere stato ingannato ed essere vittima della propria gelosia, può essere accostato al personaggio di Otello, presenta nelle sue profonde crisi anche diversi tratti di Amleto.

Per l’amore contrastato e la morte degli innamorati potremmo essere indotti ad avvicinare “Intrigo e amore” ad una delle più celebri tragedie shakespeariane ovvero “Romeo e Giulietta”, ma il tragico finale e l’amore osteggiato sono in realtà le uniche due analogie con l’opera di Shakespeare.

Romeo e Giulietta non dubitano mai dello loro amore, non pensano mai che l’uno possa tradire l’altro e mai, neppure per un istante, ritengono che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che provano.

Ferdinand e Luise invece pur amandosi teneramente e intensamente, dubitano spesso dei loro sentimenti.
Ferdinand mette in dubbio l’amore di Luise già prima di trovare la lettera e non esita a incolparla di non amarlo abbastanza.
Quando lei si rifiuta di fuggire con lui, lui è già roso dal tarlo della gelosia e pensa che lei possa nutrire dei sentimenti per un altro uomo.
Entrambi, ma soprattutto Luise, non riescono a non sentirsi in colpa per ciò che sentono, loro stessi in fondo ritengono che il loro amore sia sbagliato perché non appartenendo alla stessa classe sociale, osano sfidare le convenzioni e ciò non è corretto.

Due parole vanno spese sul personaggio di Lady Milford, una figura femminile indubbiamente affascinante e che resta impressa nella memoria.
Secondo alcuni critici il suo è un personaggio indispensabile alla trama, ma la cui entrata in scena non è necessaria allo svolgimento della narrazione.
Tutto vero, ma non sarebbe facile rinunciare ad un personaggio della sua forza; personalmente trovo Lady Milford un personaggio estremamente romantico.
Persino nel confronto con Luise, nonostante sia così sprezzante nei confronti della ragazza che definisce una povera sciacquetta borghese, non si può non provare un po’ di compassione per lei che sa di aver perduto, ma nonostante il suo orgoglio ferito riesce a trovare comunque la forza di redimersi e di cambiare vita ripartendo da zero.

“Intrigo e amore” è un’opera che con i suoi intrecci, gelosie e menzogne è capace di affascinare e coinvolgere sia spettatori che lettori.

Friedrich Schiller è un autore a me molto caro e, per chi non l’avesse ancora letto, ricordo un altro post che ho pubblicato qualche tempo fa in merito ad un’altra opera dello stesso autore ovvero “I masnadieri”.






giovedì 24 agosto 2017

“Elisabetta I” di Carolly Erickson

ELISABETTA I
di Carolly Erickson
MONDADORI

Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, divenne regina alla morte della sorella Maria I, figlia di Caterina d’Aragona, avvenuta il 17 novembre 1558.

Elisabetta venne incoronata il 15 gennaio 1559.

Il Cinquecento fu un secolo segnato da diversi eventi nella storia d’Inghilterra: lo scisma anglicano, la perdita di Calais, la questione Irlandese e quella scozzese, la continua contesa con la Spagna per il dominio del mare.

La figura di Elisabetta I, grazie alla spregiudicatezza politica e al pugno di ferro dimostrate dalla sovrana, spicca al centro di questo tormentato periodo.

Sin dall’inizio infatti Elisabetta seppe incutere soggezione e timore in coloro che la circondavano.
Lei era la regina e spettava a lei sola assumere tutte le decisioni, ma questo non significava che i suoi consiglieri non fossero obbligati a informarla esaurientemente in anticipo quando qualche scelta si fosse rivelata azzardata, in caso contrario sarebbero stati rimproverati con asprezza da parte della sovrana.

Elisabetta era capace di calcolare debolezze e punti di forza di coloro che la circondavano e, grazie a questa sua straordinaria dote, riusciva a tenere tutti e tutto sotto controllo, traendo sempre il massimo profitto da ogni situazione.

Colta, sicura di sé ed estroversa, questa sovrana era sprovvista della passività e della compostezza che ci si sarebbe aspettati da una donna dell’epoca.

Dal padre aveva ereditato il carattere irascibile e come lui era disinibita e ribelle

Provava un estremo piacere nello scandalizzare il prossimo.

Si aspettava di essere obbedita e lo era.
Non ebbe però sempre un rapporto facile con i suoi consiglieri e la sua corte che mal tolleravano di prendere ordini da una donna.

Per anni si attese che ella prendesse marito, ma lei non riuscì mai ad accettare l’idea di condividere il proprio potere con altri e tanto meno di assoggettarsi a un consorte.
Così, nonostante fosse stata più volte sul punto di abbandonare il suo status di nubile, proprio quello stesso status con gli anni divenne il fondamento della sua leggenda.

Lei che aveva avuto numerosi amanti, sarebbe passata alla storia come la Regina Vergine.

Carolly Erickson riesce a regalarci un bellissimo ritratto di questa donna “molto strana”, per usare le parole di un ambasciatore spagnolo dell’epoca.
Una donna testarda e ribelle, vanitosa ed entusiasta della vita, una donna di eccezionali passioni.

“Elisabetta I” di Carolly Erickson è un libro davvero affascinante che racconta la vita di questa straordinaria regina dall’infanzia alla maturità, sino alla fine del suo regno avvenuta nel 1603. Elisabetta morì pochi mesi prima del suo 70esimo compleanno.

Un’accattivante biografia dalla prosa brillante.
Una lettura scorrevole e piacevole in grado di coinvolgere il lettore come si trattasse di romanzo piuttosto che di un saggio storico vero e proprio.

Da leggere senza dubbio anche le altre tre biografie di Carolly Ercikson dedicate ai Tudor: Anna Bolena, Maria la Sanguinaria e Il grande Enrico.






domenica 20 agosto 2017

“La battaglia di Montaperti” di Duccio Balestracci

LA BATTAGLIA DI MONTAPERTI
di Duccio Balestracci
Editori Laterza
La battaglia di Montaperti si svolse il 4 settembre del 1260.

La maggior parte di noi ricorda questo scontro per la descrizione che ne diede Dante nel X canto dell’Inferno dove, riferendosi a questa giornata, la descrisse come il giorno dello “strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso” (Inferno, X, 85).

La battaglia di Montaperti potrebbe riassumersi come lo scontro tra due città Siena e Firenze, tra due schieramenti Ghibellini e Guelfi, due poteri l’Impero e la Chiesa.

La storiografia sia senese che fiorentina ha riportato un ampio racconto dello storico conflitto tanto che, secolo dopo secolo, lo stesso si è arricchito di sempre maggiori dettagli.
Oggi siamo in grado di conoscere ogni particolare che caratterizzò quella giornata perfino le parole che i comandanti usarono per caricare le rispettive truppe.

In realtà però poco o nulla ci resta dei documenti dell’epoca e tutto ciò che è giunto fino a noi è in verità dovuto a epoche successive.

Le fonti sono concordi nel ricordare una battaglia cruenta e sanguinosa dove furono catturati migliaia di prigionieri.

La risoluzione dello scontro a favore di Siena e degli Svevi però non ebbe l’esito sperato: la vittoria ghibellina infatti inasprì ulteriormente la scelta anti-sveva della Chiesa e il successo conseguito con le armi si trasformò nell’inizio della crisi del ghibellinismo, riportando guelfi e papato nuovamente al centro della politica italiana.

Duccio Balestracci nel suo saggio non solo cerca di fare chiarezza sullo svolgimento della battaglia ma anche sugli effetti della stessa sul territorio e sugli equilibri politici.

La battaglia di Montaperti infatti non fu un episodio importante solo nell’ottica dello scontro tra due città rivali perché non riguardò esclusivamente le due città toscane, ma piuttosto deve essere inserito in uno scenario più ampio che vide coinvolti il Papa, l’Impero, il Regno di Sicilia e la politica che Manfredi mise in atto nel Mediterraneo.

Il saggio cerca di fare soprattutto chiarezza sulla veridicità degli schieramenti, sostenere infatti che i guelfi fossero dalla parte della Chiesa e i ghibellini dalla parte dell’Impero risulta spesso una valutazione troppo semplicistica.

Bisogna tenere conto che guelfismo e ghibellinismo nel Duecento erano concetti ben differenti rispetto al secolo precedente e lo saranno ancora di più rispetto alle epoche successive.

Gli interessi politici ed economici che muovevano gli equilibri tra le varie parti erano talmente sottili da rendere alquanto difficile, se non impossibile, poter fare un quadro chiaro e lineare della situazione.

Il saggio di Duccio Balestracci è un’opera interessante, approfondita e completa.
L’autore, nonostante l’argomento non sia dei più semplici, è riuscito a rendere la lettura il più scorrevole possibile anche a costo di sembrare a volte un po’ ripetitivo.
Ripetitività decisamente necessaria per permettere al lettore di non perdersi tra le pagine e riuscire a seguire nel modo migliore lo svolgersi degli eventi.

Il libro non è però di facilissima lettura se non si ha già un preciso quadro dell’età storica trattata e soprattutto dei numerosi personaggi che si muovevano sulla scena politica dell’epoca.

La lettura di “La battaglia di Montaperti” può essere un valido sistema per avvicinarsi all’argomento, ma se si è a digiuno della materia trattata e la si vorrebbe fare propria, suggerirei di leggere il libro una seconda volta per meglio focalizzare e assimilare gli avvenimenti e poter magari poi passare a qualche altro volume sull’argomento per ulteriori approfondimenti.




domenica 6 agosto 2017

“La felicità vuole essere vissuta” di Loredana Limone

LA FELICITA’ VUOLE ESSERE VISSUTA
di Loredana Limone
SALANI
Il terzo volume della saga nata dalla penna di Loredana Limone “Un terremoto a Borgo Propizio” ci aveva lasciato tutti con un senso si smarrimento, un velo di tristezza ma anche con tanta speranza che le cose nell’antico borgo potessero presto tornare alla normalità.

Proprio per questo motivo il quarto volume intitolato “La felicità vuole essere vissuta” era atteso con tanta trepidazione dagli affezionati lettori.

Nonostante il devastante terremoto che aveva colpito la zona, il Castelluccio che dominava il borgo con la sua imponente mole aveva resistito e proprio da qui i borghigiani avevano tratto la forza di ripartire.

Sotto la guida dell’efficientissimo sindaco Felice Rondinella, l’antico borgo risorge a nuova vita e i turisti tornano in massa a visitare il luogo attratti dalle sempre più numerose proposte inserite nel programma di eventi culturali, storici e perché no? anche un poco festaioli, offerti da Borgo Propizio.

Tra le pagine di quest’ultimo volume ritroviamo tante vecchie conoscenze e ovviamente qualche curioso nuovo personaggio come il parrucchiere cinese o il famoso registra Mr. Joyce Joy.
Tutti gli abitanti sono infatti in fermento per l’arrivo di una troupe televisiva che girerà un film sul leggendario fondatore di Borgo Propizio ovvero Aldighiero il Cortese e sulla sua consorte Rolanda la Minuta.

Tornare tra le pagine della saga di Borgo Propizio è un po’ come tornare a casa, ritrovare vecchi amici e inevitabilmente sentire la mancanza di chi non c’è più come la tostissima ziaccia Letizia.

Il lettore si sente, come per gli altri volumi, parte integrante della comunità tanto da non riuscire a trattenersi dal parteggiare ora per un personaggio ora per un altro.
In ogni romanzo la scelta del proprio beniamino è davvero personalissima.
Nei primi due volumi ad esempio non riuscivo a non fare il tifo per Belinda mentre nel terzo volume la mia protetta era senza dubbio Marietta.
E nel quarto? Nel quarto, e credetemi la cosa stupisce anche me, la mia più viva simpatia è andata tutta a Dora e alla sua Princess.
Stesse dinamiche si sviluppano naturalmente per quanto riguarda le antipatie, non me ne vogliate, ma proprio l’Amandissima non riesco a farmela diventare simpatica.

Ciò che rende davvero avvincente il romanzo, così come i precedenti, è proprio questo sentirsi talmente coinvolti, da ritrovarsi a commentare e a spettegolare come se i personaggi fossero reali, come se uscendo di casa per fare la spesa potessimo davvero incontrarli e fare due chiacchiere con loro.

Lo scomodo ruolo dell’amante, la rabbia della moglie tradita, la crisi di Padre Tobia, il desiderio e la paura di fare coming out del sindaco, la paura della solitudine sono elementi della vita di ogni giorni che riguardano tutti noi e Loredana Limone ha una magistrale capacità di riuscire a riportarli sulla carta con leggerezza e ironia.

Il romanzo si chiude in modo spensierato e allegro come è giusto che sia perché, come recita il titolo stesso, “La felicità vuole essere vissuta”.

Il finale è un finale aperto e chissà che magari un giorno, in un prossimo futuro speriamo non troppo lontano, noi tutti si possa fare ritorno nel nostro amato borgo grazie ad un quinto volume.
  
Nel frattempo, per chi se li fosse persi, ricordo i link dei post dedicati ai precedenti libri:



E le stelle non stanno a guardare














mercoledì 2 agosto 2017

“L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia

L’ARTE DI ESSERE FRAGILI
di Alessandro D’Avenia
MONDADORI
La poesia è un messaggio in bottiglia che vive nella speranza di un dialogo differito nel tempo”, così Leopardi diventa nelle pagine del libro di Alessandro D’Avenia il destinatario di un immaginario epistolario che l’autore intrattiene con il poeta.

Un escamotage singolare ed efficace che permette a questi di aprire un simbolico dialogo quanto mai interessante tra il poeta nato tanti anni fa e l’uomo contemporaneo.

Attraverso l’opera leopardiana comprendiamo che lo sconforto, il senso di straniamento, la malinconia non sono propri di una sola epoca, ma sono insiti nell’uomo.

Egli, poeta moderno, era stato in grado più di altri di comprendere quel senso di noia, di indifferenza che spesso afferra gli esseri umani. Ma proprio quella sua sensibilità nel cogliere tali sensazioni lo portava a cercare di superarle; egli non era pessimista, non si arrendeva ma piuttosto sapeva accettare la sua fragilità di uomo.
Egli non rinunciava mai ad essere se stesso.

Ed è proprio questo il più grande insegnamento che possiamo trarre da Giacomo Leopardi ovvero che, se vogliamo essere felici o quantomeno provare ad esserlo, dobbiamo sempre essere fedeli a noi stessi.
I desideri, i dolori, le passioni, l’amore sono i catalizzatori del nostro destino in quel caos che è la nostra fragile esistenza.
L’unico modo per sopravvivere è non tradire il proprio rapimento di qualunque genere esso sia. La passione e l’amore sono le uniche cose che ci possono rendere felici.
In un mondo che corre veloce, dove ciò che importa sono solo i risultati, dove ci viene richiesto di essere sempre perfetti, dove la forma e l’apparenza sono le uniche qualità che contano, troppo spesso noi ci dimentichiamo di sorridere.
Siamo talmente concentrati nel tentativo di raggiungere gli obiettivi imposti dalla società che, nei rari momenti in cui ci sembra di essere felici, abbiamo talmente paura che questo stato di grazia sia semplicemente un’illusione da rovinarlo inevitabilmente con le nostre stesse mani.

Quando ho detto ad un amico che avevo comprato questo libro ed ero davvero curiosa di iniziarne la lettura, mi sono sentita rispondere “Leopardi? ancora? Ma sì sì, anche a me al liceo piaceva, lo sentivo affine, ma poi si cresce”.
Mi chiedo cosa voglia dire per le persone “crescere”? Chiudere i propri sogni in un cassetto? Rinnegare i propri rapimenti e quindi rinunciare a “vivere”?
Leopardi aveva compreso che non è possibile smettere di essere fedeli a se stessi anche se, come lo stesso D’Avenia scrive, la speranza è un’arte che ha il suo prezzo.
Quando le speranze sono disattese l’unico modo per sopravvivere al dolore, alla perdita è colmare il vuoto traendo la forza dalle nostre passioni, dal nostro rapimento.

Leopardi, come D’Avenia ci racconta, era tutt’altro che un uomo pessimista; egli era in realtà un uomo coraggioso pur nella sua fragilità, un uomo che amava la vita e amava gli uomini, credeva nell’amicizia, era ghiotto di dolciumi e gelato e amava guardare il cielo stellato.

Come l’autore stesso scrive, questo volume non è una biografia né tanto meno vuole avere la pretesa di essere un’opera di critica letteraria, ma più semplicemente vuol essere un libro che nasce con l’intento di regalare al lettore l’immagine di un Leopardi diverso, più vero.
Il senso dell’opera di D’Avenia è racchiuso in queste poche righe tratte dal libro e che riporto fedelmente:

Caro Giacomo vorrei che tu fossi ricordato come poeta del destino e non della sfortuna, della malinconia e non del pessimismo. Come poeta della vita che lotta per trovare la sua destinazione e il suo senso, e non come poeta della gobba e della gioia negata.

Lo stile della scrittura è colto e raffinato, ma allo stesso tempo semplice e chiaro.
“L’arte di essere fragili” è una lettura appassionante e l’idea dell’autore di inserire aneddoti riguardanti le sue esperienza di vita e delle persone a lui vicine (alunni, lettori dei suoi libri, famigliari) rende il romanzo ancora più godibile e scorrevole.

Il sottotitolo del libro è “come Leopardi può salvarti la vita”. Non so se il pensiero leopardiano possa davvero salvare la vita, di certo Giacomo Leopardi è un poeta che ho sempre amato e il mio giudizio riguardo al suo potere salvifico o meno sarebbe troppo di parte.
Come D’Avenia scrive, però, la letteratura serve a fare interrogativi e senza dubbio “L’arte di essere fragile” di quesiti ne pone molti.
Forse non vi troverete le risposte di cui avete bisogno, ma in fondo anche lo stesso Giacomo Leopardi lasciava aperti molti interrogativi nelle sue poesie.
Forse alla fine la risposta è proprio questa: tutti ci poniamo delle domande e il sapere di non essere i soli a porsele, sapere che insicurezze e perplessità fanno parte di tutti noi, è già un primo passo verso la salvezza in questo nostro faticoso mestiere di vivere.