mercoledì 23 maggio 2018

“Il tatuatore di Auschwitz” di Heather Morris


IL TATUATORE DI AUSCHWITZ
di Heather Morris
GARZANTI
Aprile 1942, Lale è uno dei tanti ragazzi stipati dentro al vagone di un treno “bestiame”; come gli altri ignora la destinazione del suo viaggio e, spaventato, si interroga su cosa lo aspetti all’arrivo.
Ha tre cose in comune con i compagni: la paura, la gioventù e la religione ebraica.
Lale ha scelto liberamente di consegnarsi all’ufficio governativo a Praga in modo che, secondo quanto promesso dalle autorità, la sua famiglia possa continuare a vivere sicura nella propria casa.
Lale però, come tutti gli altri ragazzi sul treno, in cuor suo sa che tutto è solo un’illusione o, nella migliore delle ipotesi, solo una questione di tempo prima che ogni cosa precipiti.

“Il tatuatore di Auschwitz” è la storia di Lale e di Gita, due ragazzi come tanti che un giorno si incontrano e si innamorano; quello che fa la differenza è che il loro amore sboccia in un luogo dal quale sono bandite speranza e umanità.
Ad Auschwitz II -  Birkenau, Lale e Gita non sono considerati esseri umani, ma solo due numeri: 32407 lui, 34902 lei.
                                     
All’arrivo a Birkenau Lale viene impiegato come muratore; un lavoro che, nonostante i morsi della fame e i crampi, il giovane riesce ad imparare velocemente senza problemi.
Lale però contrae il tifo e solo grazie all’aiuto del giovane Aron, conosciuto sul treno, riesce a salvarsi. L’altruismo dimostrato costerà purtroppo la vita al suo giovane salvatore.

Colpito dalla storia di Lale, il tatuatore Pepan decide di accoglierlo sotto la sua ala protettrice riuscendo a convincere i nazisti ad assegnarlo a lui come assistente.
Alla domanda di Lale sul perché Pepan abbia scelto proprio lui, questi risponde dicendo che ha visto un uomo affamato disposto a morire per salvargli la vita e per questo ha immaginato valesse la pena preferirlo ad altri.

Un giorno Pepan sparisce, senza un motivo, senza un perché, ma al campo è meglio non farsi troppe domande.
Lale diventa il nuovo Tätowierer e, in qualità di tatuatore, ha diritto ad una qualità di vita leggermente migliore a quella condotta fino a quel momento; ha diritto a pasti più sostanziosi, una posto tutto suo dove dormire, un po’ più di libertà di movimento essendo ora posto sotto la protezione della Divisione Politica che risponde solo a Berlino.

Ma soprattutto Lale ha finalmente la possibilità di avvicinare Gita, la ragazza di cui si era innamorato a prima vista quel giorno in cui aveva dovuto tatuare il suo braccio e per la prima volta aveva incontrato i suoi occhi.
Lale riesce anche ad organizzare una specie di commercio clandestino con l’aiuto di alcuni uomini del villaggio vicino che vengono a lavorare al campo; grazie a questa attività Lale ha la possibilità di aiutare le persone a lui più vicine, garantendogli un po’ di cibo supplementare e qualche medicinale.

“Il tatuatore di Auschwitz” racconta la crudeltà della vita all’interno di un campo di sterminio:  l’orrore dei forni, l’abbrutimento umano, la cattiveria, la dignità calpestata.

Il romanzo di Heather Morris però non ha paura di raccontare anche la verità sull’essere umano con le sue tante contraddizioni; ci parla del suo istinto di sopravvivenza, del suo desiderio di vendetta, della paura e dell’odio nei confronti del diverso, ma anche della sua generosità e delle sue speranze.

Il romanzo è tratto da una storia vera, Lale e Gita, sono  due persone reali, due sopravvissuti all’orrore dei campi di concentramento.

Ciò che ho apprezzato di questo romanzo è sopratutto il coraggio dell’autrice nell’affrontare tematiche anche spinose, di parlare anche di quegli aspetti scomodi del passato che a volte per pietismo o per superficialità nel corso degli anni possono essere stati rimossi o dimenticati.
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Lale ha provato sulla sua stessa pelle le conseguenze dell’avidità e della diffidenza tra gli uomini e non ha timore a raccontarlo a chi, a sua volta, possa mettere sulla carta la sua testimonianza.

Speso dimentichiamo che non solo gli ebrei, sebbene fossero i più numerosi, furono rinchiusi ad Auschwitz – Birkenau, ma molte altre persone appartenenti a popoli, nazioni ed etnie diverse.

Gli zingari erano considerati la feccia dell’Europa, ritenuti, se possibile, peggiori degli ebrei; ad identificare entrambi, ebrei e zingari, non c’era neppure la nazionalità di appartenenza, ma solo la razza.
Eppure oggi nel dolore e nell'indignazione che giustamente proviamo per lo sterminio degli ebrei, tendiamo a dimenticare che i forni entrarono in funzione anche per donne, bambini e uomini zingari, a causa della rabbia e del fastidio che ancora tutt'oggi  proviamo verso di loro, ancora troppo prevenuti nei loro confronti.
                                                                                                                           
Costretti a vivere a stretto contatto gli uni con gli altri, trattati come bestie, era naturale che gli uomini fossero più portati a cercare di difendere quel poco che possedevano piuttosto che cercare di aiutare il prossimo.
Non possiamo dimenticare però che tanti trovarono comunque il coraggio di rischiare in prima persona per aiutare i compagni ritenendo, come Lale, che salvare un essere umano equivalesse a salvare il mondo.
                                                                                                                                                  
Molti puntarono il dito contro il prossimo accusandolo di essere un “collaborazionista”, senza considerare che spesso cercare di sopravvivere in situazioni così estreme poteva essere letto anche come una forma di resistenza, un atto di eroismo.

Così come un atto di eroismo era quello di salvare un compagno anche a rischio della propria vita, anche a rischio che questi un giorno si potesse trasformare nel proprio aguzzino per salvare se stesso o semplicemente perché era meglio commettere un omicidio se questo poteva servire a salvare altre vite.
 
“Il tatuatore di Auschwitz” è un testamento per le generazioni future, un racconto intenso e doloroso, ma anche una storia di speranza, perché pure in un luogo di terrore come Auschwitz-Birkenau poteva nascere un fiore, quel lampo di colore che aveva catturato lo sguardo di Lale, quell’unico unico fiore che si agitava nella brezza.

Restare vivi per raccontare al mondo cosa sia successo è il modo migliore per rendere giustizia a tutti coloro che non ce l’hanno fatta.





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