sabato 28 novembre 2020

“Mia nonna d’Armenia” di Anny Romand

Il libro racconta la storia del genocidio armenoil massacro che venne perpetrato dall’impero Ottomano tra il 1915 e il 1918 nei confronti di questo popolo.

Una pagina di storia della quale poco si conosce ma che, per l’elevato numero di vittime, può essere paragonata a quella altrettanto atroce del genocidio commesso dai nazisti nei confronti degli ebrei.

Non molto tempo fa Anny Romand ritrova un piccolo quaderno, un breve diario, scritto da sua nonna Serpouhi durante i terribili momenti che la videro vittima di quanto perpetrato dai turchi nei confronti della popolazione armena.

Anny Romand decide così di scrivere un romanzo, una sorta di diario a due voci dove alle pagine tratte dal quadernetto di Serpouhi si alternano le pagine dedicate ai racconti fatti dalla nonna alla nipotina. 

È infatti affidato alla voce della Anny bambina, non a quella della Anny adulta, il difficile compito di raccontarci in prima persona gli stralci di quelle conversazioni con Serpouhi.

Allevata dalla nonna, la piccola Anny non perdeva occasione, infatti, per ascoltarne i lunghi racconti, nonostante gli aspri rimproveri della madre contraria che la figlia venisse sottoposta al ricordo di tanto strazio.

Serpouhi si era sposata giovanissima, aveva appena quindici anni. Lei avrebbe preferito poter continuare gli studi, ma dopo la morte del padre, a causa della difficile situazione economica della famiglia, non c'era stata per lei alternativa che accettare quanto deciso dalla madre. Karnik si era rivelato un bravo ragazzo e Serpouhi aveva finito per innamorarsi di lui.

Il marito di Serpouhi venne trascinato via da casa e massacrato insieme agli altri uomini all’inizio del genocidio.

Quasi subito venne assassinata anche la figlia più piccola di appena quattro mesi. Serpouhi decise allora di affidare il figlio più grande ad una famiglia di contadini turchi perché si prendessero cura di lui, sperando in questo modo di riuscire a salvarlo.

Per due volte Serpouhi tentò di fuggire ai suoi aguzzini fino a quando riuscì a raggiungere la costa del Mar Nero e da qui finalmente, dopo essere rimasta a lungo nascosta, poté imbarcarsi per Costantinopoli.

Raggiunta la salvezza la donna poté dedicarsi al suo unico vero obiettivo ossia ritrovare suo figlio Jiraïr e portarlo in salvo.

La prefazione del libro, edito da La lepre Edizioni, ad opera di Dacia Maraini pone un quesito solo all’apparenza dalla risposta semplice e scontata.

La domanda è: quando accadono fatti tanto atroci, come appunto quanto accaduto al popolo armeno, è giusto che le vittime continuino a raccontare senza sosta quanto avvenuto fin nei minimi dettagli come fa Serpouhi, oppure, hanno ragione coloro che, come la madre di Anny o lo stesso Jiraïr, preferiscono dimenticare per lasciarsi tutto alle spalle il prima possibile?

Senza dubbio è giusto ricordare perché solo attraverso il ricordo, prendendo coscienza di quanto accaduto, si può scongiurare il pericolo che certe mostruosità possano ripetersi.

La memoria resta e resterà sempre l’arma più potente che possediamo per combattere le atrocità perpetrate nel corso dei secoli.

Eppure, leggendo le pagine di questo libro, non si può restare indifferenti di fronte alle remore e ai dubbi della madre di Anny.

Per quanto la bimba sia legata alla nonna, non si può non accorgersi di quanto certi racconti dell’orrore la tocchino profondamente e allora viene spontaneo interrogarsi se sia giusto sottoporre questa bambina all’ascolto di tanto dolore.

Anny accanto alla nonna è costretta a crescere in fretta, ma riesce comunque a mantenere un’innocenza e un candore che commuovono il lettore.

La bambina mette tutto il suo impegno per cercare di comprendere le cose dei “grandi” e per fare tesoro del racconto di quegli eventi terribili che hanno segnato sua nonna.

Anny è la sola che voglia in realtà ascoltare Serpouhi, agli altri non interessano i suoi tristi racconti.

Serpouhi era una donna forte e combattiva, ma ormai è anziana e i dolori patiti ne hanno irrimediabilmente minato il corpo e lo spirito, così la nipotina si sente in dovere di difenderla da tutto e da tutti, compresi i venditori che vogliono imbrogliarla e le impiegate maleducate all’Evêché.

Anny ascolta i racconti di Serpouhi, racconti terribili e crudi, e nonostante la giovanissima età sa già che il mondo là fuori può essere oltremodo ostile e la gente malvagia; la bimba si immedesima così tanto in quelle narrazioni che a volte le sembra di vivere in prima persona quei fatti e di camminare accanto a Serpouhi in quel suo Eden trasformatosi in inferno.

L’innocenza di fronte al racconto dell’orrore può essere racchiusa anche in queste poche righe:

Mi piace andare al cinema, gli attori, e anche le storie, non sono tristi come quelle di nonna. Al cinema finisce tutto bene, gli innamorati si ritrovano, i cattivi vengono sempre puniti. Nelle storie di nonna, invece, i cattivi non vengono puniti mai, continuano a fare del male e nessuno dice niente, nessuno glielo impedisce.

Serpouhi scrive che chi vive sereno non potrà mai comprendere la situazione di chi soffre, solo chi ha condiviso certe atrocità può davvero comprendere e capire.

La gente leggerà il nostro dolore stampato nei libri, seduta in poltrona. Ma un libro potrà mai descrivere sul serio l’insieme dei nostri dolori? Impossibile. Se ne parlerà nei salotti fino alla prossima novità, e così le suppliche e le voci dei poveri armeni si dissolveranno come fumo di sigaretta, e resterà solo cenere, e solo la terra ci verrà in aiuto.

“Mia nonna d’Armenia” è un libro di appena 125 pagine, eppure, bastano queste poche pagine per farci riflettere su tante differenti tematiche.

Il libro di Anny Romad non è solo il racconto della tragica storia di Serpouhi e del massacro del popolo armeno; attraverso le pagine del suo romanzo l’autrice riesce a dare voce anche a tutte quelle vittime che hanno vissuto sulla loro pelle le atrocità della guerra, delle deportazioni e di ogni possibile crimine contro l’umanità, vittime che non hanno potuto o non possono raccontarlo.

 

 

2 commenti:

  1. Sembra un romanzo agghiacciante.

    Di recente ho usato lo stesso aggettivo per un altro romanzo, La moglie del colonnello, che ho scoperto attraverso un post su Il giro del mondo attraverso i libri.
    https://girodelmondoattraversoilibri.wordpress.com/2020/11/10/rosa-liksom-la-moglie-del-colonnello/

    In realtà le due opere sono molto diverse, ma leggere di entrambe mi ha dato i brividi.

    Quanto alla tua domanda.
    "[...] quando accadono fatti tanto atroci, come appunto quanto accaduto al popolo armeno, è giusto che le vittime continuino a raccontare senza sosta quanto avvenuto fin nei minimi dettagli come fa Serpouhi, oppure, hanno ragione coloro che, come la madre di Anny o lo stesso Jiraïr, preferiscono dimenticare per lasciarsi tutto alle spalle il prima possibile?"
    Penso che siano 'giusti' entrambi gli atteggiamenti da parte di coloro che siano coinvolti così direttamente dai fatti. La società tutta, dopo tutto, ha una sensibilità condivisa che le permette di assorbire e proseguire, trovando una qualche via di mezzo.

    Ciò, però, non significa che possano non cambiare i valori morali. Ci sono cose che accadevano in epoche antiche che, se catapultati nel presente, verrebbero considerate mostruosità. Allo stesso modo nel futuro i valori morali possono cambiare radicalmente e certe "mostruosità" attuali potrebbero non essere considerate più tali.

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    1. Prima di tutto grazie per il link. Non conoscevo Il giro del mondo attraverso i libri, è un blog molto interessante, assolutamente da seguire.

      Ho letto la recensione di La moglie del colonnello, agghiacciante è la parola giusta per quel romanzo. Deve essere un bel romanzo, ma non so se avrò mai il coraggio di affrontarne la lettura.

      "Mia nonna d'Armenia" è altrettanto agghiacciante come storia, ma forse le immagini per quanto ce ne siano di forti, sono inferiori come numero a quelle che si trovano probabilmente nel romanzo che tu hai citato. Qui le immagini dell'orrore sono spesso filtrate dagli occhi della bambina e, per quanto triste, questo stempera un po' la tensione, ovviamente nel limite del possibile vista la violenza della storia.

      Anche io credo che siano giusti entrambi gli atteggiamenti. E' giusto raccontare perché è giusto denunciare l'orrore. Però non è sempre facile trovare il coraggio e a volte si preferisce dimenticare per sopravvivere. Ognuno ha diritto di reagire a suo modo.
      Qui però a subire il racconto di questo orrore è una bimba davvero piccola e devo dire che leggendo soffrivo per lei. Quella è l'età in cui la nonna ti racconta le favole, farle ascoltare queste storie è quasi una sorta di violenza che le si fa, anche se involontaria perché la nonna le vuole molto bene.

      Verissimo i valori morali nel corso della storia cambiano, pensa solo al mio amato Rinascimento! per non andare ancora più indietro nel tempo...

      Questo libro è un racconto piuttosto frammentario, ma lancia molti spunti di riflessione.

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