mercoledì 10 marzo 2021

“Il cuore delle cose” di Natsume Sōseki (1867-1916)

Inizi del Novecento, uno studente universitario giapponese racconta del suo incontro con il maestro durante una vacanza a Kamakura. 

In verità egli non è un suo insegnante, ma lo studente gli si rivolge così per rispetto; come egli stesso infatti spiegherà nelle prime pagine del libro è sua abitudine rivolgersi in tal modo alle persone più anziane.

Il romanzo è diviso in tre parti, nelle prime due l’io narrante è lo studente che in prima persona racconta dei suoi studi, della sua famiglia, ma soprattutto cerca di fare luce sullo strano rapporto instauratosi nel tempo tra lui e il maestro, rapporto che coinvolge in parte anche la moglie di questi.

Nell’ultima parte invece a prendere la parola è il maestro stesso che, attraverso le pagine di una lunga lettera, affida allo studente il suo testamento morale.

Il cuore delle cose (titolo originale Kokoro) di Natsume Sōseki, ritenuto oggi il suo capolavoro, presenta molti punti di contatto con la biografia del suo autore tanto da poter identificare il maestro con l’autore stesso.

Molto importante diventa quindi, per comprendere meglio il romanzo, la lettura dell’interessante prefazione di Gian Carlo Calza dedicata proprio alla vita di Sōseki e alla sua poetica.

Il 30 luglio 1912 morì l’imperatore Meiji e questo evento segnò profondamente il Giappone. Con la morte dell’imperatore terminava l’epoca di transizione del Giappone dal mondo feudale alla corsa verso l’occidentalizzazione.

Mi sono interrogata spesso sulle problematiche della traduzione di questo libro, non solo a livello linguistico, ma anche sulla difficoltà nel riuscire a trasmettere adeguatamente quella spiritualità e quel sentire orientali così lontani dalla cultura occidentale.   

In questo romanzo, forse anche perché Natsume Sōseki era un profondo conoscitore della letteratura occidentale ed in particolare di quella britannica, non si avverte nessun forte distacco tra le due culture. Qui la tradizione giapponese entra in comunione con quella occidentale sulla scia di quell'occidentalizzazione verso cui si avviava il Giappone proprio a quel tempo.

Così il concetto che l’amore profondo provato per la donna amata sia da paragonarsi ad una religione, nonostante venga espresso in un romanzo dove la società segue un modello prettamente patriarcale, non può non richiamare alla memoria la poetica di John Keats e quella lettera che il 13 ottobre 1919 egli scrisse alla sua Fanny “Sono sempre rimasto stupefatto dinnanzi a chi moriva da martire per la religione – l’amore è la mia religione – io potrei morire per amore – potrei morire per te. Il mio unico credo è l’amore e tu il mio solo dogma”.

Il cuore delle cose è un romanzo particolare, un romanzo che si svela a poco a poco, intriso di malinconia e solitudine. Delusione e senso di perdita pervadano ogni pagina; su ogni cosa domina la sfiducia nel prossimo dal momento che non può esistere una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi poiché si può essere certi che anche i migliori inevitabilmente dinnanzi alle tentazioni della vita si lasceranno corrompere.

Incomunicabilità, rassegnazione e frustrazione coinvolgono tutti i personaggi indistintamente, lo studente, la moglie, il maestro, l’amico K, soffocando ogni cosa; le verità taciute, il senso di inadeguatezza, la sofferenza, il tradimento minano alla base ogni rapporto, ogni possibile complicità è preclusa.

La moglie del maestro continuerà a sentirsi colpevole per qualcosa che non ha commesso, il maestro seguiterà a colpevolizzarsi ritenendo se stesso la sola causa di tanto dolore, mentre l’ombra dell’amico K, morto da tanto tempo, continuerà a spandere la sua tragica ombra sulle vite di chi gli è sopravvissuto.

Solo allo studente sarà concesso conoscere la verità, ma sarà troppo tardi o forse no, forse conoscere la verità potrà salvarlo da se stesso e dalle prove della vita che lo attenderanno in quest’epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale.

 



2 commenti:

  1. Woah... Elisa, che lettura affascinante hai fatto! Leggere un romanzo giapponese scritto in quegli anni, poi... In un certo senso è un po' come leggere i romanzi di Jane Austen, che sono stati scritti in un'epoca di grandi cambiamenti politici e culturali (anche se la cosa si percepisce soprattutto in Persuasione e l'incompleto Sanditon).

    A proposito di traduzione, immagino che per il traduttore italiano sia stata comunque un'impresa, in particolare perché si è trovato subito a sbattere contro il muro di "kokoro", che è un concetto difficile da rendere.

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    1. Lo sai che ultimamente sono attratta dal Giappone, così ho voluto provare con questo romanzo.
      In effetti mi ha colpito il titolo perché mi richiamava alla mente i maestri zen. Non c'è nulla che parli delle discipline orientali, ma l'atmosfere in qualche modo l'ho percepita.

      La difficoltà della traduzione invece è una problematica che mi è venuta in mente ricordando un racconto che avevo letto poco tempo fa di Gianni Eugenio Viola che parlava proprio della resa dei testi in lingua giapponese.

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