domenica 20 agosto 2017

“La battaglia di Montaperti” di Duccio Balestracci

LA BATTAGLIA DI MONTAPERTI
di Duccio Balestracci
Editori Laterza
La battaglia di Montaperti si svolse il 4 settembre del 1260.

La maggior parte di noi ricorda questo scontro per la descrizione che ne diede Dante nel X canto dell’Inferno dove, riferendosi a questa giornata, la descrisse come il giorno dello “strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso” (Inferno, X, 85).

La battaglia di Montaperti potrebbe riassumersi come lo scontro tra due città Siena e Firenze, tra due schieramenti Ghibellini e Guelfi, due poteri l’Impero e la Chiesa.

La storiografia sia senese che fiorentina ha riportato un ampio racconto dello storico conflitto tanto che, secolo dopo secolo, lo stesso si è arricchito di sempre maggiori dettagli.
Oggi siamo in grado di conoscere ogni particolare che caratterizzò quella giornata perfino le parole che i comandanti usarono per caricare le rispettive truppe.

In realtà però poco o nulla ci resta dei documenti dell’epoca e tutto ciò che è giunto fino a noi è in verità dovuto a epoche successive.

Le fonti sono concordi nel ricordare una battaglia cruenta e sanguinosa dove furono catturati migliaia di prigionieri.

La risoluzione dello scontro a favore di Siena e degli Svevi però non ebbe l’esito sperato: la vittoria ghibellina infatti inasprì ulteriormente la scelta anti-sveva della Chiesa e il successo conseguito con le armi si trasformò nell’inizio della crisi del ghibellinismo, riportando guelfi e papato nuovamente al centro della politica italiana.

Duccio Balestracci nel suo saggio non solo cerca di fare chiarezza sullo svolgimento della battaglia ma anche sugli effetti della stessa sul territorio e sugli equilibri politici.

La battaglia di Montaperti infatti non fu un episodio importante solo nell’ottica dello scontro tra due città rivali perché non riguardò esclusivamente le due città toscane, ma piuttosto deve essere inserito in uno scenario più ampio che vide coinvolti il Papa, l’Impero, il Regno di Sicilia e la politica che Manfredi mise in atto nel Mediterraneo.

Il saggio cerca di fare soprattutto chiarezza sulla veridicità degli schieramenti, sostenere infatti che i guelfi fossero dalla parte della Chiesa e i ghibellini dalla parte dell’Impero risulta spesso una valutazione troppo semplicistica.

Bisogna tenere conto che guelfismo e ghibellinismo nel Duecento erano concetti ben differenti rispetto al secolo precedente e lo saranno ancora di più rispetto alle epoche successive.

Gli interessi politici ed economici che muovevano gli equilibri tra le varie parti erano talmente sottili da rendere alquanto difficile, se non impossibile, poter fare un quadro chiaro e lineare della situazione.

Il saggio di Duccio Balestracci è un’opera interessante, approfondita e completa.
L’autore, nonostante l’argomento non sia dei più semplici, è riuscito a rendere la lettura il più scorrevole possibile anche a costo di sembrare a volte un po’ ripetitivo.
Ripetitività decisamente necessaria per permettere al lettore di non perdersi tra le pagine e riuscire a seguire nel modo migliore lo svolgersi degli eventi.

Il libro non è però di facilissima lettura se non si ha già un preciso quadro dell’età storica trattata e soprattutto dei numerosi personaggi che si muovevano sulla scena politica dell’epoca.

La lettura di “La battaglia di Montaperti” può essere un valido sistema per avvicinarsi all’argomento, ma se si è a digiuno della materia trattata e la si vorrebbe fare propria, suggerirei di leggere il libro una seconda volta per meglio focalizzare e assimilare gli avvenimenti e poter magari poi passare a qualche altro volume sull’argomento per ulteriori approfondimenti.




domenica 6 agosto 2017

“La felicità vuole essere vissuta” di Loredana Limone

LA FELICITA’ VUOLE ESSERE VISSUTA
di Loredana Limone
SALANI
Il terzo volume della saga nata dalla penna di Loredana Limone “Un terremoto a Borgo Propizio” ci aveva lasciato tutti con un senso si smarrimento, un velo di tristezza ma anche con tanta speranza che le cose nell’antico borgo potessero presto tornare alla normalità.

Proprio per questo motivo il quarto volume intitolato “La felicità vuole essere vissuta” era atteso con tanta trepidazione dagli affezionati lettori.

Nonostante il devastante terremoto che aveva colpito la zona, il Castelluccio che dominava il borgo con la sua imponente mole aveva resistito e proprio da qui i borghigiani avevano tratto la forza di ripartire.

Sotto la guida dell’efficientissimo sindaco Felice Rondinella, l’antico borgo risorge a nuova vita e i turisti tornano in massa a visitare il luogo attratti dalle sempre più numerose proposte inserite nel programma di eventi culturali, storici e perché no? anche un poco festaioli, offerti da Borgo Propizio.

Tra le pagine di quest’ultimo volume ritroviamo tante vecchie conoscenze e ovviamente qualche curioso nuovo personaggio come il parrucchiere cinese o il famoso registra Mr. Joyce Joy.
Tutti gli abitanti sono infatti in fermento per l’arrivo di una troupe televisiva che girerà un film sul leggendario fondatore di Borgo Propizio ovvero Aldighiero il Cortese e sulla sua consorte Rolanda la Minuta.

Tornare tra le pagine della saga di Borgo Propizio è un po’ come tornare a casa, ritrovare vecchi amici e inevitabilmente sentire la mancanza di chi non c’è più come la tostissima ziaccia Letizia.

Il lettore si sente, come per gli altri volumi, parte integrante della comunità tanto da non riuscire a trattenersi dal parteggiare ora per un personaggio ora per un altro.
In ogni romanzo la scelta del proprio beniamino è davvero personalissima.
Nei primi due volumi ad esempio non riuscivo a non fare il tifo per Belinda mentre nel terzo volume la mia protetta era senza dubbio Marietta.
E nel quarto? Nel quarto, e credetemi la cosa stupisce anche me, la mia più viva simpatia è andata tutta a Dora e alla sua Princess.
Stesse dinamiche si sviluppano naturalmente per quanto riguarda le antipatie, non me ne vogliate, ma proprio l’Amandissima non riesco a farmela diventare simpatica.

Ciò che rende davvero avvincente il romanzo, così come i precedenti, è proprio questo sentirsi talmente coinvolti, da ritrovarsi a commentare e a spettegolare come se i personaggi fossero reali, come se uscendo di casa per fare la spesa potessimo davvero incontrarli e fare due chiacchiere con loro.

Lo scomodo ruolo dell’amante, la rabbia della moglie tradita, la crisi di Padre Tobia, il desiderio e la paura di fare coming out del sindaco, la paura della solitudine sono elementi della vita di ogni giorni che riguardano tutti noi e Loredana Limone ha una magistrale capacità di riuscire a riportarli sulla carta con leggerezza e ironia.

Il romanzo si chiude in modo spensierato e allegro come è giusto che sia perché, come recita il titolo stesso, “La felicità vuole essere vissuta”.

Il finale è un finale aperto e chissà che magari un giorno, in un prossimo futuro speriamo non troppo lontano, noi tutti si possa fare ritorno nel nostro amato borgo grazie ad un quinto volume.
  
Nel frattempo, per chi se li fosse persi, ricordo i link dei post dedicati ai precedenti libri:



E le stelle non stanno a guardare














mercoledì 2 agosto 2017

“L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia

L’ARTE DI ESSERE FRAGILI
di Alessandro D’Avenia
MONDADORI
La poesia è un messaggio in bottiglia che vive nella speranza di un dialogo differito nel tempo”, così Leopardi diventa nelle pagine del libro di Alessandro D’Avenia il destinatario di un immaginario epistolario che l’autore intrattiene con il poeta.

Un escamotage singolare ed efficace che permette a questi di aprire un simbolico dialogo quanto mai interessante tra il poeta nato tanti anni fa e l’uomo contemporaneo.

Attraverso l’opera leopardiana comprendiamo che lo sconforto, il senso di straniamento, la malinconia non sono propri di una sola epoca, ma sono insiti nell’uomo.

Egli, poeta moderno, era stato in grado più di altri di comprendere quel senso di noia, di indifferenza che spesso afferra gli esseri umani. Ma proprio quella sua sensibilità nel cogliere tali sensazioni lo portava a cercare di superarle; egli non era pessimista, non si arrendeva ma piuttosto sapeva accettare la sua fragilità di uomo.
Egli non rinunciava mai ad essere se stesso.

Ed è proprio questo il più grande insegnamento che possiamo trarre da Giacomo Leopardi ovvero che, se vogliamo essere felici o quantomeno provare ad esserlo, dobbiamo sempre essere fedeli a noi stessi.
I desideri, i dolori, le passioni, l’amore sono i catalizzatori del nostro destino in quel caos che è la nostra fragile esistenza.
L’unico modo per sopravvivere è non tradire il proprio rapimento di qualunque genere esso sia. La passione e l’amore sono le uniche cose che ci possono rendere felici.
In un mondo che corre veloce, dove ciò che importa sono solo i risultati, dove ci viene richiesto di essere sempre perfetti, dove la forma e l’apparenza sono le uniche qualità che contano, troppo spesso noi ci dimentichiamo di sorridere.
Siamo talmente concentrati nel tentativo di raggiungere gli obiettivi imposti dalla società che, nei rari momenti in cui ci sembra di essere felici, abbiamo talmente paura che questo stato di grazia sia semplicemente un’illusione da rovinarlo inevitabilmente con le nostre stesse mani.

Quando ho detto ad un amico che avevo comprato questo libro ed ero davvero curiosa di iniziarne la lettura, mi sono sentita rispondere “Leopardi? ancora? Ma sì sì, anche a me al liceo piaceva, lo sentivo affine, ma poi si cresce”.
Mi chiedo cosa voglia dire per le persone “crescere”? Chiudere i propri sogni in un cassetto? Rinnegare i propri rapimenti e quindi rinunciare a “vivere”?
Leopardi aveva compreso che non è possibile smettere di essere fedeli a se stessi anche se, come lo stesso D’Avenia scrive, la speranza è un’arte che ha il suo prezzo.
Quando le speranze sono disattese l’unico modo per sopravvivere al dolore, alla perdita è colmare il vuoto traendo la forza dalle nostre passioni, dal nostro rapimento.

Leopardi, come D’Avenia ci racconta, era tutt’altro che un uomo pessimista; egli era in realtà un uomo coraggioso pur nella sua fragilità, un uomo che amava la vita e amava gli uomini, credeva nell’amicizia, era ghiotto di dolciumi e gelato e amava guardare il cielo stellato.

Come l’autore stesso scrive, questo volume non è una biografia né tanto meno vuole avere la pretesa di essere un’opera di critica letteraria, ma più semplicemente vuol essere un libro che nasce con l’intento di regalare al lettore l’immagine di un Leopardi diverso, più vero.
Il senso dell’opera di D’Avenia è racchiuso in queste poche righe tratte dal libro e che riporto fedelmente:

Caro Giacomo vorrei che tu fossi ricordato come poeta del destino e non della sfortuna, della malinconia e non del pessimismo. Come poeta della vita che lotta per trovare la sua destinazione e il suo senso, e non come poeta della gobba e della gioia negata.

Lo stile della scrittura è colto e raffinato, ma allo stesso tempo semplice e chiaro.
“L’arte di essere fragili” è una lettura appassionante e l’idea dell’autore di inserire aneddoti riguardanti le sue esperienza di vita e delle persone a lui vicine (alunni, lettori dei suoi libri, famigliari) rende il romanzo ancora più godibile e scorrevole.

Il sottotitolo del libro è “come Leopardi può salvarti la vita”. Non so se il pensiero leopardiano possa davvero salvare la vita, di certo Giacomo Leopardi è un poeta che ho sempre amato e il mio giudizio riguardo al suo potere salvifico o meno sarebbe troppo di parte.
Come D’Avenia scrive, però, la letteratura serve a fare interrogativi e senza dubbio “L’arte di essere fragile” di quesiti ne pone molti.
Forse non vi troverete le risposte di cui avete bisogno, ma in fondo anche lo stesso Giacomo Leopardi lasciava aperti molti interrogativi nelle sue poesie.
Forse alla fine la risposta è proprio questa: tutti ci poniamo delle domande e il sapere di non essere i soli a porsele, sapere che insicurezze e perplessità fanno parte di tutti noi, è già un primo passo verso la salvezza in questo nostro faticoso mestiere di vivere.






lunedì 31 luglio 2017

“Victoria” di Daisy Goodwin

VICTORIA
di Daisy Goodwin
SONZOGNO
Il 24 maggio 1837 Alexandrina Victoria festeggiò il suo diciottesimo compleanno.
Il fatto fu di estrema rilevanza per la giovane erede al trono poiché, quando fosse giunto il momento, sarebbe stata incoronata regina senza bisogno di alcun reggente al suo fianco.

Nella notte tra il 19 e il 20 giugno 1837 Guglielmo IV morì e Victoria, svegliata alle sei del mattino, apprese dall’arcivescovo di Canterbury e dal ciambellano Lord Conyngham di essere la nuova sovrana d’Inghilterra.

Finalmente padrona del suo destino, Victoria poteva affrancarsi dalla stretta sorveglianza della madre e dalla molesta influenza del segretario di lei, l’onnipresente e ambizioso Lord Conroy.

Le prime mosse di Victoria in qualità di regnante non godettero subito né del favore dei sudditi né di quello del parlamento.
Tra passi falsi, scandali e intrighi di corte la regina visse in realtà un periodo piuttosto burrascoso e contrastato.
Grazie però al carattere energico e alla tenacia che la contraddistinguevano, Victoria, forte anche dell’amicizia e del supporto del suo insostituibile primo ministro, Lord Melbourne, seppe affrontare ogni difficoltà e uscire dalla crisi in modo abile e vincente.

Per l’incredibile durata del suo regno, ben sessantaquattro anni, nonché per gli ideali da lei incarnati, la regina Victoria è uno di quei personaggi che hanno dato il nome a un’epoca.

Il libro di Daisy Goodwin ripercorre i primissimi anni di regno di questa sovrana, dalla sua ascesa al trono sino al fidanzamento con il cugino, il principe Albert di Sassonia-Coburgo-Gotha.
Sarà proprio il matrimonio con Albert a segnare il felice punto di svolta della vita di Victoria sia come donna che come regina, facendo di lei una delle figure femminili più grandi della storia.

Il romanzo, come riportato dalla stessa autrice nei ringraziamenti al termine del volume, è stato scritto durante la stesura della sceneggiatura dell’omonima serie televisiva.
                                                        
In Italia la prima serie di “Victoria” è andata in onda nei mesi scorsi sul canale LaEffe (Sky canale 139).
La trama del libro però si interrompe prima rispetto al racconto della serie TV che narra la storia sino alla nascita del primo figlio della coppia reale.

Come quasi tutti gli accaniti lettori, consiglio sempre di leggere il romanzo prima di vedere la sua trasposizione su piccolo o grande schermo che sia, in quanto molto spesso la bellezza del libro perde molto nel passaggio carta stampata – tv/cinema.

“Victoria” di Daisy Goodwin è uno di quei rari casi, l’eccezione che conferma la regola, per il quale il principio “prima il libro e poi il film” non deve essere necessariamente rispettato.
Il romanzo infatti è fotocopia, in senso buono del termine, del period-drama trasmesso in tv; persino i dialoghi sono pressappoco identici ed è un piacere poter così ripercorrere la storia precedentemente vista sullo schermo scorrendo le pagine del libro e riportare alla memoria le immagini che ci avevano così piacevolmente conquistati.

Il racconto scorre veloce affascinando il lettore con la sua trama a metà tra genere storico e romance, una combinazione perfetta e vincente.

Victoria è all’inizio una ragazzina caparbia, la sua non è stata una’infanzia facile, esce da un’adolescenza malinconica e si ritrova investita di un’enorme potere, ma allo stesso tempo anche gravata da enormi responsabilità.
Victoria deve crescere e imparare in fretta le regole del gioco, abbandonare le sue bambole, uniche compagne di giochi della sua infanzia, e calarsi nella parte che il destino le ha riservato.
La vediamo prima alle prese con l’infatuazione per il suo primo ministro, affettuosamente da lei soprannominato Lord M; un amore platonico quello che la legherà a lui, ma pur sempre un rapporto che, seppur innocente, le attirerà non poche critiche.
E infine l’incontro con il cugino Albert, il compagno della sua vita; un matrimonio il loro che, contrariamente alle aspettative, sarà un matrimonio d’amore e non di convenienza dinastica.

“Victoria” di Daisy Goodwin è un romanzo appassionante che mette d’accordo gli amanti del romanzo storico quanto quelli del romance.

Una trama piacevole e avvincente fanno di questo volume una lettura decisamente consigliata.




domenica 23 luglio 2017

“La missione teatrale di Wilhelm Meister ” di Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832)

LA MISSIONE TEATRALE
DI WILHELM MEISTER
di Johann Wolfgang Goethe
BUR Rizzoli
Wilhelm Meister, figlio di un commerciante di una piccola città imperiale, nonostante sia destinato a seguire le orme paterne, fin da piccolo manifesta una fervente passione per il teatro.
La sua vocazione teatrale in verità nasce quando, ancora bambino, assiste ad una rappresentazione di marionette organizzata dalla nonna per i propri nipoti.
Da quel giorno il gioco preferito di Wilhelm diventerà organizzare spettacoli con i burattini e, una volta cresciuto, mettere in scena vere e proprie rappresentazioni insieme agli amici.
A spingere il giovane Wilhelm definitivamente sulla strada del teatro sarà però la giovane attrice Marianne che diventerà anche la sua amante.
Un amore ovviamente contrastato dalla famiglia di lui che riuscirà a far sì che la liaison venga bruscamente interrotta.
Su consiglio del cognato, Wilhelm partirà per un viaggio allo scopo di comprendere meglio il mondo del commercio e nel frattempo cercare di recuperare alcuni crediti presso alcuni debitori dell’azienda di famiglia.
Inevitabilmente però il giovane non riuscirà a restare a lungo lontano dal suo mondo.
Si unirà ad una compagnia di attori e con loro girerà il paese cercando di dare voce alla sua aspirazione ovvero divenire attore e direttore di spettacolo nonché di scrivere egli stesso testi per il teatro.

Il personaggio di Wilhem Meister accompagnerà l’autore per buona parte della sua vita.
“La missione teatrale di Wilhelm Meister” è infatti solo un primo abbozzo di quello che sarà il secondo romanzo di Goethe intitolato “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” pubblicato nel 1796.
“La missione teatrale di Wilhelm Meister” si interrompe al 14° capitolo del VI libro mentre il romanzo pubblicato nel 1796 conta un totale di otto capitoli e un numero quasi doppio di pagine rispetto alla prima stesura.
Il romanzo fu probabilmente ampliato dall’autore al suo rientro dal viaggio in Italia che egli effettuò negli anni tra il 1786 e il 1788 e dal quale ritornò forte di nuove esperienze che ne determinarono una maturazione politica, sociale, umana e intellettuale.

Il testo di “La missione teatrale di Wilhelm Meister” in realtà è stato riportato alla luce solo nel 1911, fino a questa data l’unica versione conosciuta era quella pubblicata nel 1796.

Goethe riprenderà a raccontare le vicende di Wilhelm  Meister in un altro romanzo intitolato “Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister”, scritto tra gli anni 1820 – 1821, ma pubblicato solo nel 1829.

“La missione teatrale di Wilhelm Meister” ha un carattere più esasperatamente romantico rispetto a “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meiester” nel quale Goethe, giunto ad una maturazione intellettuale ed estetica, propone una concezione della storia e uno stile completamente diversi.
 “Gli anni di apprendistato di Wilhemn Meister” verrà riconosciuto dalla critica come il primo romanzo di formazione della storia della letteratura.

Ma ritorniamo ora al nostro libro oggetto di questo post ovvero “La missione teatrale di Wilhelm Meister”.
Wilhelm è un giovane la cui passione per il teatro lo porta a scontrarsi spesso con una realtà a lui sconosciuta e con un ambiente, quello degli attori di strada, lontanissimo da quello borghese nel quale è stato cresciuto.
Egli è un idealista e in quanto tale non può che soccombere dinnanzi a personaggi avidi per il quale il teatro è semplicemente un mezzo per sbarcare il lunario e nulla più.
Wilhelm è inoltre sempre combattuto tra il desiderio di realizzare il suo sogno e il rimproverarsi questo suo inconcludente bighellonare.
E’ conscio di non concludere nulla, ma allo stesso tempo è incapace di rinunciare alla sua vocazione nonostante sia tormentato dai sensi di colpa nei confronti della propria famiglia che sa di avere grandemente deluso.
Wilhelm Meister è buono, ingenuo e corretto e per questo viene regolarmente imbrogliato e raggirato dagli altri, tanto che alla fine persino il lettore inizia a stancarsi della sua ingenuità.

Rimarchevoli sono i personaggi femminili che offrono un ventaglio molto ampio di elementi distintivi: dalla piccola Mignon, un personaggio atipico, un ragazzina malinconica ed eccentrica; a Philine, la bella attrice vanitosa, capricciosa e provocante; ad Aurelie, triste e disperata, inquieta e infelice per amore tanto da riuscire a identificare perfettamente se stessa nel ruolo di Ophelia; e infine Madame Melina che proviene da un ambiente borghese come Wilhelm, ma al contrario di questi, non ha trovato alcun ostacolo nell’ambientarsi a vivere tra gente gretta e corrotta.

L’autore si rivolge spesso nelle sue pagine direttamente al lettore non facendo quindi mistero di aver scritto il romanzo per essere letta da un pubblico.

Goethe è esperto conoscitore dell’animo umano e attraverso i suoi personaggi ci racconta i sogni e le speranze degli uomini così come i disinganni e le disillusioni con i quali questi inevitabilmente devono fare i conti nella propria vita.

Stranissimo! Con nulla l’uomo sembra essere più in confidenza che con le proprie speranze e i propri desideri, che a lungo nutre e conserva in cuore, e tuttavia quando un giorno gli si fanno incontro, quando quasi lo importunano, egli non li riconosce, e ne rifugge.

Risulta bizzarro scoprire come, anche a distanza di secoli, il modo di sentire degli uomini e di affrontare il mondo non sia cambiato affatto.

Spesso desiderava con tutta se stessa sbarazzarsi di quella relazione a cui accennavamo sopra, il pensiero della quale si faceva ogni giorno più disgustoso. Ma come liberarsene? Ognuno sa come sia difficile per l’uomo avere il coraggio di fare un passo decisivo, e che a migliaia, piuttosto, ogni giorno che viene trascinano la propria vita alla bell’e meglio in un destino di clandestinità!

Il romanzo alterna pagine commoventi ed emotivamente coinvolgenti ad altre decisamente un po’ tediose e monotone.

Il ritmo è lento, il testo non sempre scorrevole e purtroppo, complice anche il numero di pagine abbastanza elevato, poco meno di quattrocento, “La missione teatrale di Wilhelm Meister” non si può certo ritenere un testo di facilissima e agevole lettura, ma resta pur sempre un romanzo comunque fondamentale per chiunque voglia cercare di approfondire meglio l’opera di Johann Wolfgang Goethe.




domenica 9 luglio 2017

“La fine della solitudine” di Benedict Wells

LA FINE DELLA SOLITUDINE
di Benedict Wells
SALANI
Jules, Liz e Marty perdono i genitori in un incidente stradale quando sono ancora dei ragazzini. Jules il più piccolo dei tre ha appena undici anni.
                                                    
Costretti a vivere separati e senza famiglia in un istituto, estranei l’uno all’altro dovranno cercare di sopravvivere in un ambiente freddo e deprimente.
Il luogo in cui verranno accolti infatti si rivelerà essere non un accogliente collegio elitario, ma piuttosto un misero collegio di campagna composto da due edifici grigi e una mensa all’interno del comprensorio del liceo locale.

Ognuno dei tre fratelli cercherà a modo proprio di sopravvivere alle avversità: Marty si getterà a capofitto nello studio, Liz vivrà in modo sfrenato e senza regole mentre Jules si chiuderà sempre più in se stesso.

Altra protagonista della storia è Alva, una ragazza del posto che frequenta il liceo da esterna. 
Tra lei e Jules nascerà fin da subito un legame molto speciale, una storia d’amicizia e d’amore che unirà le loro solitudini in maniera indissolubile.
Jules e Alva per anni si incontreranno, si mancheranno, si lasceranno e si ritroveranno; così indispensabili l’uno all’altra eppure così incapaci di riconoscere i propri sentimenti e fare chiarezza nelle proprie emozioni.

Io narrante del racconto è Jules stesso, ormai adulto, che si risveglia in un letto di ospedale dove è stato ricoverato a seguito di un incidente stradale.

Destatosi dal coma ripercorre le pagine della sua vita e lo fa senza sentimentalismi e senza alcuna retorica.

Il ritmo del racconto è incalzante e la storia coinvolgente.

I personaggi sono a tutto tondo, ricchi di sfumature, dinamici e imprevedibili; presentano caratteristiche psicologiche che mutano pagina dopo pagina.

“La fine della solitudine” è a tutti gli effetti un romanzo di formazione, dove i giovani protagonisti evolvono verso la maturazione e l’età adulta.

Bendict Wells è riuscito a creare una grande empatia tra il lettore e i personaggi del romanzo.

Il lettore partecipa commosso al dolore di Jules, ai continui tentativi di Marty di cercare di guarire dal disturbo ossessivo compulsivo da cui è afflitto, alla speranza di Toni che il suo amore un giorno possa venire corrisposto dalla bella Liz.
Toni e Liz che un giorno erano stati definiti dal fratello di lei in modo scherzoso ma nemmeno troppo “La sadica e il masochista”.

Eppure, nonostante le avversità, nonostante i colpi avversi della destino i tre fratelli resteranno uniti; ognuno seguirà un percorso diverso, ma tutti ritroveranno la strada che li riporterà in seno alla famiglia.

La vita non è un gioco a somma zero. Non deve niente a nessuno e le cose accadono come accadono. A volte in maniera giusta, così che tutto appare sensato, a volte talmente ingiusta che viene da dubitare di tutto. Ho tolto la maschera al destino e sotto ho scoperto solo il caso.

“La fine della solitudine” è un racconto doloroso e commovente, pieno di sconsolata tenerezza e di tenace speranza; un libro che fa commuovere ma che allo stesso tempo sa anche far sorridere.




domenica 2 luglio 2017

“Lorenzo de’ Medici” di Giulio Busi

LORENZO DE’ MEDICI
di Giulio Busi
MONDADORI
Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico (1449 - 1492) è uno dei personaggi più rappresentativi della storia italiana e del XV secolo.

Il Quattrocento fu un’epoca in cui a tanto fasto corrispose altrettanto pericolo, un’epoca in cui i banchieri giocarono un ruolo fondamentale, un secolo nel quale in Italia si ebbero cinquant’anni di guerra senza esclusione di colpi e cinquant’anni di pace e stabilità.

Il Lorenzo de’ Medici con cui facciamo conoscenza nell’interessante libro di Guido Busi, è un personaggio intrigante e affascinante, un intellettuale che ebbe tra le mani un enorme potere politico, ma anche una piena consapevolezza della propria ricca e vasta cultura .

Buon politico e mediocre banchiere, ottimo poeta e scadente stratega il Magnifico è destinato a dominare la scena fin dalla nascita o meglio dal suo battesimo avvenuto il giorno dell’Epifania del 1449 alla presenza di padrini di tutto rispetto.
Erano infatti presenti tra gli altri l’arcivescovo di Firenze, gli ufficiali del reggimento cittadino e persino il superbo signore d’Urbino, Federico da Montefeltro, aveva inviato un proprio uomo a rappresentarlo.

L’epoca del Magnifico era un mare periglioso, un mondo fatto di sorrisi e pugnalate alle spalle, in cui vinceva chi meglio sapeva dissimulare e Lorenzo de’ Medici, buttato nella mischia ancora giovanissimo, imparò fin da subito a cavalcare le onde dell’infida distesa marina della politica.

Con queste parole egli descrisse nel suo diario personale, verso la fine dei suoi giorni, l’incontro con i notabili di Firenze che vennero ad offrirgli il potere sulla città:

Il secondo dì dopo la morte di mio padre, quantunque io Lorenzo fussi molto giovane, vennono a noi a casa i principali della città e dello stato a dolersi del caso e confortarmi ché pigliassi la cura della città e dello stato come avevano fatto l’avolo e il padre mio, le quali cose, per essere contro la mia età e di grave carico e pericolo, malvolentieri accettai e solo per la conservazione degli amici e sostanze nostre, perché a Firenze si può mal vivere senza lo stato.

Lorenzo de’ Medici viene ricordato non solo per la sua politica e per il potere che esercitò su Firenze, potere che detenne saldamente senza mai mostrarlo apertamente, ma anche per il suo gusto raffinato per l’arte e la letteratura, per i suoi versi e per il cenacolo di intellettuali ed artisti che era solito riunirsi nel palazzo di via Larga o nelle ville di proprietà della famiglia.

Lorenzo de’ Medici è uno dei personaggi più noti della storia e proprio per questo nel corso dei secoli sono stati versati fiumi di inchiostro su di lui.
Perché allora scegliere di leggere proprio il libro di Giulio Busi?

Perché la biografia scritta dal professor Busi è arguta e divertente, ma allo stesso tempo rigorosa e precisa nelle fonti, tanto che alla bibliografia è dedicato un intero capitolo del volume, intitolato “Libri, molti, per Lorenzo”, che conta ben 80 pagine!

La peculiarità di questo saggio è proprio la magistrale capacità del suo autore di essere riuscito a raccontare la storia del Magnifico e del Quattrocento rendendole attuali, avvalendosi di un linguaggio moderno e graffiante grazie anche ad uno stile di scrittura incalzante, diretto e ironico.

Scorrevole come un romanzo, caustico e corrosivo come la contemporanea satira politica, rigoroso come un saggio storico preciso e documentassimo, “Lorenzo de’Medici, una vita da Magnifico” è uno di quei libri che affascinano il lettore fin dalla prima pagina

Un volume imprescindibile per chiunque voglia conoscere a fondo la storia, gli amori, la politica e i fasti di quell’uomo ricco, elegante e colto che fu Lorenzo il Magnifico, un uomo dal sangue freddo e calcolatore che apprese sin da subito che nel codice del potere, mostrarsi deboli e pavidi è il miglior modo per soccombere.