domenica 17 marzo 2024

“Breve storia dell’arte” di Claudio Strinati

L’obiettivo che Claudio Strinati si pone con questo saggio è quello di esplorare il fenomeno delle espressioni artistiche nel corso della storia mettendone in evidenza gli scopi, l’evoluzione e le corrispondenze.

Si parte dall’assioma più semplice ovvero che che tutti gli artisti, indipendentemente dall’epoca in cui essi abbiamo vissuto, pongono tutti quanti la stessa domanda al fruitore delle loro opere: “ti piace?”

L’arte è quanto di più soggettivo possa esistere e quindi ci si interroga quale sia lo scopo di una disciplina che ne indaghi la storia. Di fatto oggigiorno l’insegnamento della storia dell’arte è stato soppresso già in diversi paesi.

Se è vero che la storia dell’arte costituisce di per sé un tentativo di rispondere il più oggettivamente possibile ad una materia dominata dalla soggettività, è però altrettanto vero che l’arte è per i popoli della Terra un fattore identitario, un qualcosa in cui riconoscersi e trovare le proprie radici più profonde.

La storia dell’arte è condizionata indubbiamente dalla personalità e dal modo di sentire di ogni singolo artista, ma questi opera nell’epoca in cui vive e non si può non tenere conto che né sarà influenzato e che per questo le sue opere rifletteranno inevitabilmente non solo il suo proprio essere ma anche lo spirito dei tempi.

Lo stesso concetto di bellezza è un’idea indefinita e indefinibile, soggetta al mutare dei tempi e delle circostanze.

Attraverso l’analisi degli eventi salienti che hanno caratterizzato i vari secoli, con uno sguardo attento e puntuale alla letteratura e alla filosofia, Claudio Strinati ci conduce in un viaggio che prende avvio dall’arte rupestre degli uomini primitivi giungendo sino alle soglie dell’arte moderna.

Per noi occidentali Rinascimento e Barocco sono i momenti più alti e memorabili della nostra storia dell’arte, ma qual è il punto di svolta che ci traghetta nella modernità mutando per sempre il modo di percepire l’opera d’arte? La scoperta dell’energia elettrica. Nell’Ottocento, infatti, con la nascita del metodo fotografico la funzione artistica assume un significato tutto nuovo, così come avverrà ancora di più in seguito con l’avvento del cinema.

Tra le pagine di questo saggio ritroviamo tutti i nomi che hanno fatto grande la storia dell’arte, inutile citarne solo alcuni.

Quando si tratta di arte è inevitabile che il pensiero dello storico trapeli in tutta la sua soggettività; ogni lettore si troverà quindi più o meno d’accordo con alcune affermazioni di Claudio Strinati.

Un esempio può essere il pensiero dello storico dell’arte sugli ultimi anni di Raffaello. Secondo Strinati questi videro il declino dell'artista che avvenne in seguito alla salita al soglio pontificio di Leone X. Sebbene apertamente venisse ancora celebrato come maestro sommo, di fatto, colui che era stato il protetto di Giulio II venne accantonato a favore di altri.

Un appunto, giusto per amore della storia medicea a me tanto cara, tra le pagine del libro troverete un’imprecisione in quanto è scritto che Giulio de’ Medici, futuro Clemente VII, era nipote di Leone X. In realtà, Giulio, in quanto figlio naturale di Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico, padre di Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici, era di questi cugino di primo grado.

Il saggio di Claudio Strinati è sì una breve storia dell’arte, ma è soprattutto un libro che ci induce a leggere tra le righe, a fare collegamenti tra le varie discipline e a gettare uno sguardo su come gli eventi influenzino l’arte e il nostro sentire, ci porta a riflettere sui concetti di bellezza e di sublime, a interrogarci se davvero l’arte, come scrive Strinati, costituisca “l’unico vero esorcismo possibile e concretamente praticabile alla naturale tendenza umana al combattimento e allo scontro”.



giovedì 29 febbraio 2024

“Cosimo I de’ Medici” di Eugenio Giani

Perché scrivere un altro libro su Cosimo I quando tanto è già stato scritto sull’argomento? Inizia con questo interrogativo il saggio di Eugenio Giani. Invero, lo stesso che mi ero posta io prima di accingermi alla lettura. Domanda lecita dalle risposte molteplici e non banali.

Il libro di Eugenio Giani è un saggio dal carattere divulgativo che indaga tutte le sfaccettature della complessa personalità di Cosimo I de’ Medici. In queste pagine viene evidenziata, attraverso connessioni e suggestioni, l’importanza che Cosimo ebbe non solo per Firenze ma per l’intera Toscana. Il sottotitolo che lo definisce “il padre della Toscana moderna” è senza dubbio un titolo evocativo ma anche un’incontrovertibile verità. 

Se è vero, infatti, che tutti ricordano quello che di grande fece il Magnifico per Firenze, è indubbio che altrettanti meriti vadano riconosciuti proprio al primo Granduca di Toscana, colui che fece di questa terra uno Stato moderno in grado di dire la propria accanto alle grandi potenze dell’epoca, certo non in virtù dell’estensione territoriale, davvero esigua, ma grazie ad un’efficiente macchina governativa.

Cosimo scelse come suo motto Festina lente (affretti lentamente) e come impresa una tartaruga con una vela sul suo carapace. Fu un uomo dotato di una determinazione e una lungimiranza non comuni, ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, seppe essere anche molto paziente, attendendo sempre il momento propizio per agire e comunque mai prima di essersi ampiamente documentato.

Per molti egli fu un uomo ambizioso, accentratore e umorale. Certamente Cosimo I non ebbe un carattere facile; fu sempre poco incline a fidarsi del prossimo, retaggio degli insegnamenti materni e di un’infanzia piuttosto complicata per via degli eventi politici del tempo, e agì anche in modo spietato contro chi osò sfidare la sua autorità. Va però detto, almeno a sua parziale discolpa, che fu un grande legislatore e, tenendo conto di quelle che dovevano essere la moralità e la cultura dell’epoca, egli agì sempre secondo la legge.

Quando Cosimo salì al potere la situazione finanziaria dello Stato era prossima alla bancarotta. Nei suoi 37 anni di governo ridisegnò l’economia della Toscana e non ci fu settore al quale egli non mise mano, dall’attività estrattiva fino addirittura alla pesca e alla piscicoltura.

Comprese fin da subito l’importanza degli sbocchi sul mare sia per aiutare l’espansione economica del territorio sia per rafforzare il peso del Ducato sullo scacchiere politico del tempo.

Cosimo non fu un condottiero, non scese mai in battaglia in prima persona, fu  piuttosto un uomo di penna dotato di grande lucidità ed eloquenza.

Ebbe la straordinaria capacità di saper scegliere e circondarsi dei più validi collaboratori in ogni settore; questo lo condusse alla vittoria in quelle guerre che dovette combattere.

Firenze fu indubbiamente il centro del potere, ma Cosimo comprese l’importanza di fare sentire la propria presenza su tutto il territorio e lo fece anche attraverso innumerevoli viaggi. La stessa Pisa, l’antica rivale, la Repubblica sconfitta dai fiorentini, diverrà a tutti gli effetti una sorta di seconda capitale del Granducato.

Cosimo sostituì il vecchio sistema della Corte con delle magistrature che noi oggi noi definiremmo ministeri. Tra questi potremmo identificare tra gli altri un ministero dei beni culturali, a cui fece capo il Vasari, e un ministero dei beni ambientali affidato al vecchio Ordine di Parte Guelfa a cui venne data nuova vita attraverso la Legge dell’Unione.

Persino il paesaggio della Toscana venne rimodellato per volere di Cosimo: furono costruite nuove città e ne furono ammodernate altre, grande impulso venne dato alla costruzione di mura e fortificazioni, vennero costruiti nuovi acquedotti e molti terreni vennero bonificati per essere resi produttivi.

Cosimo diede molta importanza agli archivi, alla stampa, alla cultura e all’arte non meno che all’economia.

Ebbe la fortuna di essere affiancato da una consorte quale Eleonora di Toledo, donna colta, raffinata e dotata di un fiuto per gli affari non inferiore al suo. Il loro fu un matrimonio politico ma anche un’unione molto felice. Purtroppo Eleonora morì molto giovane e questo fu un duro colpo per Cosimo. Eleonora morì con il titolo di duchessa, non poté partecipare alla gioia del marito per la consacrazione a primo Granduca di Toscana.

Il libro di Eugenio Giani è una lettura estremamente piacevole, dettagliata e ampiamente documentata. Seguendo le tracce dei tanti luoghi disseminati in Toscana che ancora oggi portano il segno dell’opera del primo Granduca Medici, Giani ci regala un vivido ritratto di quel fine politico e statista che fu Cosimo I senza tralasciare di dipingerne anche, attraverso curiosi particolari e aneddoti, i connotati più umani, legati al suo essere anche uomo comune, figlio, marito e padre oltre che capo di Stato.

“(…) a volte sono proprio le vicende a margine che danno il senso di un’esistenza”



domenica 18 febbraio 2024

“Dietro le colonne” di Navid Carucci

Dopo “La Luce di Akbar”, pubblicato sempre con La Lepre Edizioni, Navid Carucci torna a parlarci dell'Impero Moghul.

Siamo nel 1657, l’Hindostan è una terra florida e in pace, il regno è amministrato da ufficiali capaci e giusti, la raccolta dei tributi è equa, ma improvvisamente, quando il sovrano si ammala e tutti temono il peggio, si riaccendono le faide per la successione.

L’imperatore Shan Jahan ha già da tempo designato come erede il primogenito Dara Shikoh, ma questo non impedirà che gli altri fratelli scendano in campo contro di lui e contro lo stesso padre, che si sarà nel frattempo rimesso dalla la crisi, scatenando una sanguinosa guerra per il trono.

Jahanara, la figlia maggiore, Somma Principessa, ha fatto da madre ai fratelli e le sorelle; Mumtaz Mahal era infatti morta di parto quando Jahanara aveva appena diciassette anni.

La tradizione dei Timuridi è una tradizione di sangue, lo stesso Shan Shikoh non si era fatto scrupoli di uccidere fratello e nipote pur di conquistare il potere. Jahanara, principessa illuminata e cosmopolita, vorrebbe impedire che la storia si ripeta ma non ci riuscirà.

Jahanara è molto vicina all’erede al trono designato dal padre. Dara Shikoh è di un solo anno più giovane di lei. Entrambi desiderano una religione universale e non divisiva, tutto è Dio.

Proprio la religione sarà al centro dello scontro con Aurangzeb, terzo figlio maschio di Shan Jahan, sunnita ortodosso ed estremista.

Se Jahanara parteggia per il primogenito Dara Shikoh, Rosahanara è dalla parte di Aurangzeb, mentre la più giovane delle figlie dell’imperatore, Gauharara, è molto vicina Shah Shuja, secondogenito maschio, di presunta fede sciita.

Navid Carucci con magistrale bravura è riuscito ancora una volta a raccontare la storia con la S maiuscola attraverso la narrazione romanzata dei suoi personaggi. Con l’introduzione di personaggi nati dalla sua fantasia e grazie alla dettagliata caratterizzazione piscologica dei protagonisti realmente esistititi, l’autore è riuscito a regalarci un affresco quanto più verosimile di un’epoca tanto ricca di contraddizioni.

Tra le pagine troviamo racconti di avvenimenti e tradizioni che spesso ci colpiscono per la loro violenza e crudeltà, come quando leggiamo della cerimonia funebre hindu in cui le mogli del defunto venivano arse vive insieme al corpo del marito talvolta volontariamente, più spesso costrette. In verità, se ci pensiamo, anche la storia occidentale è costellata di altrettanta violenza, basti pensare per esempio alle nostre corti rinascimentali, alle guerre di religione tra cattolici e protestanti e all’Inquisizione.

L’aggressività che ritroviamo nel racconto di Navid Carucci però non è solo quella fisica che si sviluppa tra i fratelli in lotta per il potere; le sorelle, pur non combattendo tra loro con le armi, si fronteggiano con una violenza psicologica altrettanto vigorosa.

Jahanara è fortemente avversata da Rosahanara. Le accuse che la secondogenita rivolge alla sorella maggiore nascono soprattutto da un sentimento di rivalsa e invidia per essere sempre stata messa in secondo piano. Esecrabile per i suoi modi, non la si può certamente assolvere per la sua cattiveria d’animo, ma Rosahanara non è poi così lontana dalla verità quando accusa Jananara di non sapere cosa voglia dire essere sempre seconda, di aver sempre vissuto su di un piedistallo. Da parte sua Jahanara, schiacciata dalle responsabilità, ha anche lei i suoi demoni da affrontare come la mancata maternità, che vive come un terribile fallimento personale, e la continua ricerca di un equilibrio che sembra sempre sfuggirle.

Gauharara è forse l’unica che riuscirà a fare pace con se stessa superando il proprio demone ovvero il terribile senso di colpa per aver provocato la morte della madre con la propria nascita.

“Dietro le colonne” racconta il passato, un passato lontano nel tempo, ma che ha ancora un forte legame con il presente, vuoi perché ci porge una chiave per meglio afferrare dinamiche politiche e religiose ancora attuali, vuoi perché ci fa comprendere che alcuni demoni personali con i quali ci confrontiamo noi tutti sono gli stessi da sempre perché parte dell’essere umano in quanto tale.

Farti valere non significa tradire i tuoi famigliari, anzi non devi smettere di amarli, di amare, o governerai senza cuore. Però i vincoli della sottomissione sono d’impaccio al volo.

giovedì 1 febbraio 2024

“Giuliano de’ Medici” di Rita Delcroix

Quando ci si sofferma ad osservare la splendida tomba del duca di Nemours (1479-1516), con la bellissima rappresentazione del giorno e della notte, opera di Michelangelo, pochi si interrogano su chi davvero fosse stato Giuliano de’ Medici, pochi ne conoscono la storia.

Rita Delcroix ha colmato questa lacuna regalandoci, a mio avviso, una delle più belle biografie che siano mai state scritte su questo personaggio le cui sembianze sono a noi giunte grazie ad un meraviglioso dipinto di Raffaello

Pochi come l’Urbinate furono capaci di cogliere l’anima dei personaggi ritratti e così fu anche per Giuliano. Non solo i dettagli fisici non sfuggirono all’occhio attento di Raffaello, come la falange mancante del dito indice della mano destra, ma anche quel suo essere gentile e quella sua bontà d’animo, qualità che lo resero benvoluto da tutti tanto da piangerlo ovunque quando per lui sopraggiunse la morte a soli 37 anni.

Lorenzo il Magnifico era solito dire dei suoi tre figli maschi che fossero uno saggio, uno buono e uno pazzo. Il pazzo era Piero, il primogenito, colui che morì nel Garigliano senza mai poter fare ritorno a Firenze dopo la cacciata del 1494; il buono, Giovanni, colui che salì al soglio pontificio con il nome di Leone X e infine, il saggio, Giuliano, quello a cui era più legato, l’ultimogenito nato l’anno dopo la Congiura dei Pazzi e a cui aveva dato il nome dell’amato fratello assassinato nel Duomo di Firenze il giorno 26 aprile 1478.

Giuliano, forse più degli altri figli, soffrì per la morte del padre al quale era sinceramente affezionato e per il quale nutriva quasi una venerazione. Per tutta la vita Giuliano, che verrà anch’egli appellato Magnifico come il padre, cercò invano di ricreare intorno a sé quell’ambiente famigliare e intriso della dottrina neoplatonica che aveva conosciuto durante la sua infanzia. 

Troverà però, per un breve periodo, qualcosa di simile ad Urbino, alla Corte dei Montefeltro, ultimo baluardo di cavalleria e neoplatonismo, dove stringerà solide amicizie e ritroverà vecchie conoscenza.

Malinconico, disilluso, sempre alla ricerca di un suo equilibrio in un’epoca tanto violenta e voltagabbana in cui stentava a riconoscersi, lui così leale e sincero, pervaso da un sentimento di fedeltà orgogliosa al passato e dalla volontà di essere all’altezza del nome di suo padre, Giuliano non possedeva né i difetti né le qualità necessarie per essere un politico. L’amore per il bello e per lo studio ne fecero l’emblema del cortigiano ideale, tanto che lo stesso Baldassare Castiglione ne fece uno dei protagonisti del suo celebre “Cortegiano”.

In un’epoca dove l’Italia era terra di conquista, dove ogni giorno alleanze, fedeltà, amicizie venivano continuamente negate e tradite, l’esule Giuliano,  unico Medici ovunque ben accetto per il suo buon carattere, viaggiò costantemente tra Venezia, Bologna, Roma, Urbino, fino al suo tanto agognato ritorno a Firenze. La città però era mutata e il palazzo di Via Larga non era più lo stesso, le sue mura non risuonavano più delle voci amate e famigliari dei protagonisti della Corte di Lorenzo Il Magnifico. Giuliano, spaesato e solo, preferì dunque fare ritorno a Roma, ancora una volta in cerca di quel mondo perduto, sempre nel vano tentativo di far rivivere un giorno i fasti della vecchia corte medicea perduta.

Giuliano de’ Medici fu molte cose: un soldato valoroso e sfortunato, un poeta e un letterato, un mecenate amico degli artisti, ma soprattutto, ammantato della suprema eleganza della sprezzatura, egli fu uno degli ultimi rappresentanti di un mondo al crepuscolo.

Il libro di Rita Delcroix è caratterizzato da una prosa elegante e fluida, le immagini scorrono vivide dinnanzi al lettore che sente, pagina dopo pagina, quasi di partecipare in prima persona agli eventi che incalzanti si susseguono.

L’opera della Delcroix è una biografia romanzata che presenta qualche imprecisione storica senza dubbio, ma nell’insieme è un libro davvero ben scritto: commovente, avvincente ed emozionante.

Una delle caratteristiche più apprezzabili di questo libro è l’interdisciplinarità degli argomenti perché, indagando a trecentosessanta gradi il personaggio di Giuliano e di coloro che vissero accanto a lui, Pietro Bembo , il Castiglione, Leonardo da Vinci, Raffaello solo per citarne alcuni,  Rita Delcroix indaga a tuttotondo anche la sua epoca dal punto di vista artistico, politico, storico, filosofico e letterario.

Difficile davvero condensare in poche righe i tanti stati d’animo suscitati da queste pagine ricche di storia e partecipazione emotiva.

Una lettura decisamente consigliata al di là della passione o meno condivisa per la famiglia Medici e per il periodo storico in cui i fatti narrati si svolsero.

(…) quell’esule povero e splendido che temperava l’orgoglio degli Orsini con l’intelligente umanità dei Medici.




sabato 20 gennaio 2024

“I Diari di Dante” di Riccardo Starnotti

Secondo una leggenda medievale la Divina Commedia sarebbe stata spiegata nella sua totalità solo dopo settecento anni dalla sua stesura o dalla morte del suo autore.

30 Marzo 2009. Riccardo compie 25 anni, non è nel mezzo del cammin della sua vita, ma ha pur sempre raggiunto un traguardo, il quarto di secolo.  Il tempo della profezia sta per scadere e lui da qualche notte fa uno strano sogno, sempre lo stesso. E se fosse proprio lui il prescelto per risolvere l’enigma? Una serie di coincidenze lo conducono alla scoperta di una pergamena antica. La pergamena riporta una bellissima poesia in terzine dantesche che fa pensare che il suo autore potrebbe essere addirittura il Sommo in persona.

Inizia così un affascinante viaggio alla scoperta del significato del testo poetico, un percorso che parte da Firenze e attraversa diverse località del Casentino, un viaggio fatto di incontri speciali e di testi antichi, di luoghi singolari, senza mai perdere di vista la letteratura dantesca.   

Più volte Riccardo si sentirà dinnanzi alle terzine che celano il mistero con le loro “parole di colore oscuro” come Dante di fronte alla porta dell’Inferno, ma non si scoraggerà mai, sostenuto sempre dalla presenza della dolce compagna Irene.

“I Diari di Dante. La leggenda si avvera” si preannuncia essere il primo volume di una trilogia. Un testo molto diverso da quello che mi sarei aspettata, ma conoscendo l’autore non stupisce che la sorpresa potesse nascondersi dietro l’angolo. Invero, questo libro ha un taglio molto particolare che non permette in alcun modo di inserirlo in uno specifico genere letterario.

Sulle parole di Dante Riccardo Starnotti ci conduce alla scoperta delle località meno conosciute del Casentino, ci fa conoscere i misteri del luogo da dove il viaggio ebbe inizio, San Miniato al Monte a Firenze, ci porta nella burella del bellissimo castello di Poppi.

Tra queste pagine, però, non troviamo solo luoghi, poesia e alchimia, ma anche tanti personaggi affascinanti e una gustosa guida enogastronomica perché, come non manca mai di ricordare Riccardo, anche la fase “mastica” ha la sua importanza quanto quella mistica.

Il libro di Riccardo Starnotti è anche uno zibaldone di pensieri che inducono il lettore ad interrogarsi su tante tematiche, che non necessariamente debbono essere ricondotte alla poetica dantesca, come il vero significato della filosofia, la necessità di ritrovare un ritmo lento, il piacere della scoperta, il piacere di imparare cose nuove solo per il gusto di farlo.

A questo punto credo sia doveroso spendere qualche parola sull’autore di questo libro. Riccardo Starnotti è davvero un personaggio. Guida turistica e ambientale, è solito condurre visite dantesche nei luoghi dove il poeta nacque e visse durante l’esilio e in quei posti menzionati nella Divina Commedia. Riccardo si è tanto calato nella parte che ormai anche i suoi amici stentano a riconoscerlo quando si presenta loro in borghese.

Il suo libro per quanto romanzato è fortemente autobiografico. Riccardo, infatti, ha fatto propria la missione di riuscire a rendere fruibile e comprensibile a tutti la Divina Commedia. È presidente dell’Associazione Culturale Amici di Dante in Casentino che si  occupa di far riscoprire i luoghi danteschi e dal 2021 ha lanciato la prima piattaforma e-learning per spiegare in maniera semplice e chiara il testo che ha dato vita alla lingua italiana, DANTFLIX. Trovate Riccardo Starnotti su Instagram e Facebook come @viajandocondante 






domenica 14 gennaio 2024

“The house of the Wolfings” di William Morris

William Morris (1834-1896) fu un uomo dotato di una mentalità estremamente versatile; molteplici furono i suoi interessi che spaziarono nei più diversi campi artistici e culturali sino ad approdare alla militanza politica. Egli fu uno dei primi socialisti inglesi.

Tra le sue innumerevoli passioni ci furono la mitologia nordica e il romanzo medievale in particolar modo quello islandese. Questi argomenti influenzarono largamente la sua produzione letteraria.

“The house of the Wolfings” è il romanzo che ha ispirato la nascita del genere fantasy. Lo stesso J. R. R. Tolkien affermò di aver tratto ispirazione proprio da quest’opera per le storie ambientate nella sua “Terra di Mezzo”.

La storia del romanzo di William Morris racconta della lotta tra i Goti e gli invasori Romani, inframmezzando alla realtà storica elementi mitologici e fantastici.

In un alternarsi di prosa e poesia, la fusione di elementi di magia e di verità del passato danno vita ad un racconto epico carico di pathos e raffinato lirismo.

Protagonista del racconto è Thiodolf, condottiero degli Wolfings, una della Casate più importanti della Marca. Spetterà a lui, scelto come Comandante di Guerra insieme ad Otter dei Laxings, condurre gli eserciti per difendere le Terre delle Genti dal famelico invasore.

William Morris esalta in queste pagine il valore, l’ardore e l’eroismo dei Goti contrapponendolo all’avidità e all’irreggimentazione proprie dei Romani sebbene non manchi, comunque, di riconosce a questi un grande coraggio in battaglia.

È appassionante poter leggere la storia da un altro punto di vista, quello dei Goti appunto, essendo noi quasi sempre abituati a leggerla dal punto vista dei Romani.

“The house of the Wolfings” è un romanzo che affronta temi che, oltre ad interessare i cultori del genere fantasy che qui potranno ritrovare le atmosfere all’origine del loro genere preferito, diventano anche un importante spunto di riflessione sociale considerando proprio la visione politica utopistica dell'autore.

Qualche parole deve assolutamente essere spesa per la casa editrice Black Dog: molto bella la veste grafica del volume, ottima la qualità della carta e particolarmente felice l’idea di corredare il volume con le bellissime illustrazioni in bianco e nero opera di Elena Massola. Infine, da sottolineare l’interessante prefazione a cura di Andrea Comincini che qui ci racconta il genio dimenticato di William Morris.




giovedì 4 gennaio 2024

“Volpi e leoni: i misteri dei Medici” di Marcello Simonetta

Con la morte di Lorenzo il Magnifico, avvenuta il giorno 8 aprile 1942, si apre per gli stati italiani un periodo complicato e ricco di contraddizioni che culminerà con il terribile sacco di Roma nel maggio del 1527.

Il saggio di Marcello Simonetta si pone l’obiettivo di esaminare come i vari membri della famiglia Medici si mossero sulla complessa scena politica italiana dopo la morte di colui che il Guicciardini aveva definì l’ago della bilancia d’Italia. 

Simonetta prende fin da subito le distanze dal finto buonismo mediceo mettendo i discendenti del Magnifico sullo stesso piano della famiglia più controversa della storia:

I Borgia erano orgogliosi portatori del male, i Medici furono ipocriti sostenitori del bene”.

In queste pagine incontriamo Piero il Fatuo, l’erede designato del Magnifico, il fratello Giovanni, il futuro Leone X, e il cugino Giulio, il futuro Clemente VII, oltre a tante altre figure, solo apparentemente di minor spicco, ma non meno importanti per la scena politica del tempo. Tra queste troviamo Alfonsina Orsini, la moglie di Piero, una donna dal carattere indomito e volitivo, che non si tirava mai indietro quando c’era da lottare per ottenere favori per il figlio Lorenzo, per il quale pretese dal papa Leone X il ducato di Urbino, o per la figlia Clarice, moglie di Filippo Strozzi.

Proprio Filippo Strozzi incarnava il fautore per eccellenza dell’inciucio tra politica e finanza. Avventuriero, seduttore e privo di scrupoli, Filippo Strozzi, fu uno dei protagonisti principali della storia. Una figura, la sua, che stupisce oggi per la sua contemporaneità.

Un personaggio che incuriosisce, e credo meriti un ulteriore approfondimento, è quello di Giuliano de’ Medici, il terzogenito del Magnifico, futuro duca di Nemours.  Dandy ante litteram, Giuliano, aveva ereditato dal padre, al quale sembra fosse stato molto affezionato, l’abilità del verseggiare in stile petrarchesco. Egli risulta il membro più piacevole e affascinante della famiglia e fu molto amato presso le corti del suo tempo.

Le due figure a cui Simonetta dedica più spazio sono ovviamente quelle dei due papi Medici: Leone X e Clemente VII.

Leone X, al secolo Giovanni de’ Medici, quando venne eletto a soli 38 anni era già sovrappeso e la sua complessione risultava poca sana. Verrà ricordato per il suo comportamento gaudente, le spese folli e la sua inaffidabilità. Perderà definitivamente la reputazione di “buono”, a cui tanto teneva, in occasione di quella che è passata alla storia come “la congiura dei cardinali”.

Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, figlio illegittimo di Giuliano, riuscì a far rimpiangere addirittura il papato del cugino Giovanni. Se da cardinale diede l’impressione di essere persona accorta e lungimirante, una volta assurto al soglio pontificio si rivelò violento, ambizioso e vendicativo. Più di tutto furono però la sua doppiezza e la sue continue esitazioni nel prendere decisioni a condurre Roma e il papato alla rovina.

Un solo breve accenno viene fatto a Giovanni dalle Bande Nere, ma va detto che il saggio analizza maggiormente l’aspetto politico della storia piuttosto che il dispiegarsi degli eventi sul campo di battaglia vero e proprio.

Il libro è un saggio ben documentato, corredato da numerosissime note e da una ricca bibliografia. Pur volendo essere di natura divulgativa, il testo è comunque dettagliato e rigoroso nel metodo. I dati riportati, tutti verificabili, si rifanno non solo a lettere e fonti di archivio ma anche ad una precisa e attenta analisi dei testi letterari dell’epoca. La lettura non risulta però sempre scorrevole.

Complotti, vendette, alleanze e tradimenti sono il leitmotiv di quest’epoca tanto confusa e oscura. A tal proposito, per chi ancora non l’avesse visto, consiglio il bellissimo film diretto da Ermanno Olmi “Il mestiere delle armi” (2001)