domenica 27 ottobre 2013

“All’Autunno” di John Keats


Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché
l'estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.




“All’Autunno” è ritenuta da molti critici una delle più perfette poesie mai scritte in lingua inglese e forse proprio per tale motivo è oggi uno dei poemi più antologizzati in questa lingua.

Composta nel 1819 venne pubblicata nell’anno successivo e inclusa nella raccolta “Lamia, Isabella, La Vigilia di Sant’Agnese e altre Poesie”.

Dalle molte correzioni ed errori di scrittura presenti in un manoscritto senza titolo che sembrerebbe essere una prima edizione dell’ode, ne possiamo dedurre che Keats scrisse molto rapidamente queste tre stanze, preso dall’eccitazione creativa del momento. Molti, infatti, sono i cambiamenti apportati dal poeta prima di darne alle stampe la versione definitiva.

Keats compose questa poesia il 19 settembre dopo aver trascorso una piacevole e serena giornata in campagna. Le sensazioni provate quel giorno furono da lui stesso descritte in una lettera, datata 22 Settembre, al suo amico J. H. Reynolds:

"How beautiful the season is now. How fine the air -- a temperate sharpness about it. Really, without joking, chaste weather -- Dian skies. I never liked stubble-fields so much as now -- aye, better than chilly green of the Spring. Somehow, a stubble plain looks warm, in the same way that some pictures look warm. This struck me so much in my Sunday's walk that I composed upon it." 

L’ode si compone di tre stanze ciascuna di 11 versi in rima (la prima stanza ABABCDEDCCE, la seconda e la terza ABABCDECDDE), non rintracciabili nella versione tradotta che, per quanto eccellente, perde la musicalità e il ritmo dell’originale.


To Autumn

Season of mists and mellow fruitfulness
Close bosom-friend of the maturing sun
Conspiring with him how to load and bless
With fruit the vines that round the thatch-eaves run;
To bend with apples the moss'd cottage-trees,
And fill all fruit with ripeness to the core;
To swell the gourd, and plump the hazel shells
With a sweet kernel; to set budding more,
And still more, later flowers for the bees,
Until they think warm days will never cease,
For Summer has o'er-brimm'd their clammy cells.

Who hath not seen thee oft amid thy store?
Sometimes whoever seeks abroad may find
Thee sitting careless on a granary floor,
Thy hair soft-lifted by the winnowing wind;
Or on a half-reap'd furrow sound asleep,
Drows'd with the fume of poppies, while thy hook
Spares the next swath and all its twined flowers:
And sometimes like a gleaner thou dost keep
Steady thy laden head across a brook;
Or by a cider-press, with patient look,
Thou watchest the last oozings hours by hours.

Where are the songs of Spring? Ay, where are they?
Think not of them, thou hast thy music too,-
While barred clouds bloom the soft-dying day,
And touch the stubble-plains with rosy hue;
Then in a wailful choir the small gnats mourn
Among the river sallows, borne aloft
Or sinking as the light wind lives or dies;
And full-grown lambs loud bleat from hilly bourn;
Hedge-crickets sing; and now with treble soft
The red-breast whistles from a garden-croft;
And gathering swallows twitter in the skies.


La prima stanza ci racconta dei primi giorni d’autunno: la temperatura è ancora mite e la natura è tutto un'esplosione di colori e di frutti. Nella seconda assistiamo alla personificazione dell’Autunno stesso, il ritmo inizia a rallentare e la stagione viene rappresentata come una figura che con il suo falcetto è intenta a mietere, lasciando che il vento le scompigli i capelli. Nell’ultima stanza invece la stagione autunnale viene messa a confronto con quella primaverile, l’autunno sta per finire e tutto fa presagire l’arrivo dell’inverno: la migrazione delle rondini, gli agnelli nati in primavera che sono ormai cresciuti…

Non è tanto il declino dell’autunno quello che John Keats vuole cogliere con questo inno ma piuttosto l’infinito ciclo di morte e rinascita della vita e della natura.





venerdì 18 ottobre 2013

“In the pleasure groove. Love, Death & Duran Duran” di John Taylor

IN THE PLEASURE GROOVE
Love, Death & Duran Duran
di John Taylor
DUTTON
Se la domanda è: John chi? Il bassista dei Duran Duran? La risposta è sì, proprio lui. Se invece vi state chiedendo se io sia impazzita, la risposta è no, assolutamente no!
Ogni tanto mi piace proporre un libro un po’ diverso e visto che è da un po’ che non lo faccio…tuffiamoci insieme in the pleasure groove e rendiamo omaggio ai mitici anni ’80 con la biografia di uno dei musicisti che, con la sua band, ha dato un contribuito essenziale alla storia di un’epoca.

Ho letto il libro in lingua originale, senza dubbio una lettura un po’ più impegnativa ma decisamente più appagante e completa. Un’ottima scelta per chiunque voglia esercitare il proprio inglese.
Il volume è comunque disponibile anche in edizione italiana con il titolo “Nel ritmo del piacere. Amore, morte & Duran Duran” (Arcana Edizioni).

Perché leggere “In the pleasure groove”? Semplicemente perché non è la solita, banale e ripetitiva autobiografia scritta da una rockstar, un elenco di eccessi che dopo la lettura non vi lascerà nulla.
Il libro di John Taylor è un libro ben scritto e ben costruito, in cui l’artista mette a nudo se stesso. E’ una sorta di autoanalisi nella quale ripercorre attraverso il flusso di coscienza la sua vita, ricordandone i momenti felici ed i successi ma anche i momenti bui, le ansie e le paure, le debolezze ed i dubbi.

E’ il racconto di un uomo maturo che ha affrontato un difficile percorso di riabilitazione per ritrovare un proprio equilibrio interiore ed una serenità emotiva lacunosa se non del tutto assente per tanti, troppi anni. Un uomo che, una volta accettati il proprio disagio e la propria malattia, ha saputo guardare oltre per riprendere il controllo della propria vita.
In queste pagine l’artista guarda al suo passato con spirito critico, talvolta magari con un velo di nostalgia, ma sempre senza piangersi addosso.
Un aspetto in particolare mi ha colpito del libro: John Taylor si assume le proprie responsabilità, non parla mai male degli altri membri della band o delle persone che ruotavano attorno ad essa, non si toglie nessun sassolino dalle scarpe, anche se ne avrebbe la possibilità in più di un’occasione.

La lettura è appassionante e scorrevole perché l’autore non si limita a riportare un mero elenco di dati biografici e aneddotici, ma riesce ad inquadrare perfettamente questi ultimi all’interno di un disegno più ampio.
Così il racconto del matrimonio dei genitori diventa l’occasione per parlare della vita nell’Inghilterra del secondo dopoguerra… il racconto del percorso formativo diventa l’occasione per parlare del sistema scolastico inglese e di come questo sia variato nel corso degli anni ’60 e ’70…e potrei citarvi tantissimi altri esempi.

Che dire dei divertenti aneddoti di vita vissuta? le amicizie, la band, l’amore per la musica…John e Nick nel loro periodo punk in giro per locali che registrano gruppi che un giorno potrebbero diventare famosi…le prime esperienze di John con le lenti a contatto…il primo walkam sony, un must dell’epoca…l’amore degli Italiani per i Duran Duran…

Le uniche parti che ho trovato un po’ più ostiche, ma semplicemente perché non ho alcuna preparazione musicale, sono quelle in cui Taylor scende nel particolare sui suoni, sulla strumentazione, sulle scelte artistiche ecc. Non fraintendetemi però, nulla di inaccessibile, anzi pagine interessanti da leggere anche per i profani come me!

“In the pleasure groove” è un’autobiografia che offre tante belle chicche anche ai Duraniani più accaniti e preparati, è un libro piacevole da leggere per coloro che ricordano con nostalgia gli anni ’80 ed è una lettura interessante per chi quegli anni non li ha vissuti o era all’epoca troppo giovane per ricordarli oggi.

And the music never sounded better.


domenica 13 ottobre 2013

“Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” di Alessandra Paoloni

Brevi monologhi in una sala
da ballo di fine Ottocento
di Alessandra Paoloni
formato Kindle
Nonostante il titolo imponente che farebbe pensare ad un tomo particolarmente sostanzioso, “Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” è in realtà un libretto di pochissime pagine, circa un centinaio.

Chi mi conosce sa che non amo particolarmente il formato e-book. Questa volta però mi sono lasciata tentare dal titolo davvero intrigante del libro d’esordio dell’autrice e, con mia grande sorpresa, mi sono ritrovata a leggere un’operetta in versi davvero interessante.

Alessandra Paoloni, come lei stessa racconta nella nota introduttiva, ha tratto ispirazione per questo libro dalla lettura de “L’antologia di Spoon River” una raccolta di poesie, opera di Edgar Lee Masters, pubblicate tra 1914 ed il 1915. 
Scritte sotto forma di epitaffio le poesie del poeta americano raccontano la vita di alcune persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino immaginario della provincia americana.
Inutile dire che ora sono davvero curiosa di leggere anche il libro di Edgar Lee Masters che ho già provveduto prontamente ad inserire nella lista dei prossimi acquisti.

In “Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” sono gli stessi invitati al ballo a dialogare con il proprio io. In sostanza ogni poesia consiste in una serie di brevi considerazioni tra sé e sé da parte dei diversi protagonisti della storia che, terminato il proprio monologo, introducono il personaggio successivo.
Sfilano dinnanzi a noi uomini e donne di ogni età, un vero e proprio corteo di vizi e virtù dell’essere umano: facciamo conoscenza con giovani prossime al matrimonio, mogli, figlie, fidanzate e amanti…incontriamo artisti, poeti, uomini anziani con giovani mogli al seguito, dandy…
Ogni inviato porta infatti sulla scena ansie, paure, desideri inconfessati, sentimenti non corrisposti, voglia di libertà ed evasione…

In poche pagine Alessandra Paoloni riesce a regalarci un quadro dettagliato di un mondo dove l’ipocrisia e il perbenismo regnano sovrani. Ascoltando i pensieri di ogni personaggio riusciamo a cogliere perfettamente l’estenuante lotta tra la voglia di essere e l’importanza di apparire, un conflitto che ha interessato l’uomo in ogni epoca e che ancora oggi è di estrema attualità.
Tutti indossano una maschera per sottrarre il proprio vero io agli sguardi indiscreti ed indagatori degli altri, ma nessuno però può sottrarsi dal giudicare e ancor meno dall’essere giudicato dal prossimo.

La scrittura di Alessandra Paoloni è elegante, scorrevole ed essenziale. Ogni parola è pensata e perfetta. I suoi versi sono degni dei più famosi poeti dell’Ottocento e ad essere sinceri, il lettore potrebbe essere facilmente ingannato sulla datazione dell’opera se non fosse già a conoscenza del fatto che Alessandra Paoloni è un’autrice contemporanea.

“Brevi monologhi in una sala da ballo di fine Ottocento” può essere definito tranquillamente una piccola perla. Assolutamente da leggere.



sabato 5 ottobre 2013

“L’isola dei due mondi” di Geraldine Brooks


L’ISOLA DEI DUE MONDI
di Geraldine Brooks
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
La storia si svolge nell’America Settentrionale del XVII secolo, stessa epoca ed ambientazione di un altro più celebre romanzo ovvero “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne di cui vi ho parlato non molto tempo fa. E’ stato proprio questo collegamento tra i due libri che mi ha spinta a leggere il romanzo di Geraldine Brooks.
Vi anticipo subito che la differenza più evidente è il tipo di scrittura, Hawthorne è un autore dell’Ottocento ed indubbiamente il suo stile narrativo è più lento, distaccato e concedetemi il termine più pedante. Lo stile narrativo di Geraldine Brooks nonostante sia molto descrittivo, soprattutto quando si sofferma sulle caratteristiche dell’isola e della sua natura incontaminata, è uno stile più fresco, immediato e scorrevole. 

Protagonista de “L’isola dei due mondi” è Bethia Mayfield, figlia del pastore dell’isola di Martha’s Vineyard. La storia del romanzo viene raccontata in prima persona, sotto forma di memoires, proprio da questa ragazzina che rimasta orfana di madre in giovane età è costretta fin da giovanissima ad occuparsi della casa, del padre, del fratello maggiore e della sorellina più piccola.
Bethia è determinata, intelligente e piena di vita e, sebbene timorata di Dio, mal sopporta le regole imposte dalla comunità puritana. Più di ogni altra cosa non riesce ad accettare il fatto che, in quanto donna, le siano precluse cultura ed istruzione.
Durante una delle sue solitarie esplorazioni dell’isola, Bethia conosce Caleb, figlio del capo indiano e nipote dello sciamano della tribù dei Wampanoag. Tra i due nasce un forte legame di amicizia che si rinsalderà quando Caleb verrà accolto nella casa del padre della ragazza per dargli quei primi rudimenti di latino, greco ed ebraico che permetteranno al ragazzo indigeno di intraprendere il corso di studi che lo porterà al conseguimento della laurea nell’università di Harvard.
L’amicizia tra Caleb e Bethia è l’incontro di due civiltà e due religioni diametralmente opposte. Il popolo di Caleb è un popolo libero e primitivo, che non conosce il significato della parola peccato e che adora le divinità del cielo e della terra. La comunità puritana è una comunità repressa, ossessionata dalle regole e dalla religione, dove ogni emozione ed affettività vengono soffocate.

Il racconto che, come l’autrice tiene a precisare nella sua nota al termine del libro, è opera di pura fantasia è in realtà ispirato ad una storia vera.
Caleb fu veramente il primo nativo americano a laurearsi ad Harvard, purtroppo però le fonti storiche al riguardo sono davvero scarse per avere ulteriori dettagli sulla sua breve e sfortunata vita.

“L’isola dei due mondi” è un bellissimo romanzo, intenso ed emozionante, che parla di amicizia e libertà, di emancipazione e pregiudizi.
Un libro che ci racconta di un mondo ancestrale e di un popolo libero e fiero costretto a sottomettersi e a soccombere per la propria stessa sopravvivenza.