Visualizzazione post con etichetta Giappone. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Giappone. Mostra tutti i post

martedì 21 febbraio 2023

“Trovare la calma nella tempesta” di Marina Panatero e Tea pecunia

Faccio sempre molta fatica quando leggo dell’antico Giappone a mettere in relazione cosa avvenisse in quello stesso periodo in Italia ed in Europa. Sebbene oggi con la globalizzazione sembri tutto più semplice, in verità, la difficoltà a comprendere pienamente la cultura del Sol Levante per noi occidentali resta legata a quel modo tanto differente di approcciarsi alla vita che inevitabilmente si rifà alle tanto diverse radici di pensiero.

Non è il primo libro che leggo sull’argomento, eppure, mai come questa volta, ho compreso come spesso il nostro modo di entrare in contatto con la cultura orientale sia oltremodo maldestro e superficiale. Ricordo ancora, ad esempio, quando da ragazzina per qualche anno praticai judo. Ecco, solo ora riesco a comprendere quanto all’epoca certe cose mi siano state trasmesse in maniere meccanica e pertanto inutilmente. Quanto sarebbe stato invece più costruttivo se qualcuno mi avesse spiegato, ad esempio, l’importanza rituale del saluto prima di un incontro piuttosto che impegnare ogni sforzo per farmelo eseguire correttamente.

Il libro di Marina Panatero e Tea Pecunia si pone l'obiettivo, attraverso la storia della spada giapponese e la saggezza dei maestri samurai, di fornire un valido aiuto per affrontare avversità, malattie, lutti, insomma quegli avvenimenti dolorosi che nel corso della vita colpiscono chiunque di noi all’improvviso.

Il volume inizia con una serie di brevi biografie dedicate ai più grandi maestri di spada samurai e tra questi ritroviamo due tra coloro che sono a me più cari ovvero Miyamoto Musashi e Yagyu Munemori.

Si passa poi a trattare più nello specifico della storia della spada giapponese partendo dal periodo arcaico, in cui le spade erano di pietra, per passare alle prime spade giunte dal continente asiatico, per la precisone dalla vicina Corea, e arrivare infine ai giorni nostri. Sono descritti i diversi modelli, le varie scuole e ampio spazio è dato anche alla ritualità della loro forgiatura.

La seconda parte del libro è dedicata alla via dei maestri di spada samurai. Attraverso le loro parole si comprende come questa sia un modus vivendi utile per affrontare il più serenamente possibile ogni avversità che si possa incontrare nella vita.

Prendiamo ad esempio il Dokkodo, ossia quel breve manoscritto che Musashi compose pochi giorni prima della sua morte, ebbene, in questo suo testamento troviamo una valida summa dei migliori insegnamenti che il maestro impartì ai suoi discepoli. Mai pentirsi di ciò che si è compiuto, non essere avidi, non invidiare il prossimo, essere imparziali, non abbandonarsi allo sconforto dovuto ad una separazione, sono solo alcuni dei punti salienti del Dokkodo.

Fondamentali sono l’autodisciplina, la perseveranza, il superamento della paura della morte e l’accettazione della sua inevitabilità. Il coraggio è fondamentale nel combattimento come nella vita perché solo il coraggioso, non conoscendo la paura, riesce, mantenendo la mente sgombra, a non rimanere bloccato.

In verità, nulla ci viene insegnato dai maestri perché la preparazione e lo studio sono importanti per cercare di ritrovare in noi stessi la conoscenza che di per sé fa già parte di noi.

Tra le belle immagini che possiamo ritrovare tra le pagine dei maestri di spada dei samurai c’è quella del fior di loto che cresce nel fango ma non viene intaccato dallo stesso così la nostra mente, allo stesso modo, dovrebbe rimanere imperturbabile.

Un prezioso suggerimento è quello di cercare di affrontare le situazioni critiche come si affronterebbe un viaggio. La forza di volontà e il coraggio che si impiegano nell'affrontare un viaggio, lo studio dei dettagli con cui lo si pianifica, dovrebbero essere gli stessi con i quali si affrontano le avversità.

Lo zen ha permeato lo spirito dei samurai fin dalla sua comparsa. Come già in altre occasioni, parlando dei libri Marina Panatero e Tea Pecunia, abbiamo detto che lo zen non ha dogmi, non è né una religione né una filosofia, ma piuttosto un modo di affrontare la vita. Il principio è quello di lasciarsi alle spalle tutto quel mondo fatto di contrari e contrapposizioni. L’illuminazione consiste nel prendere coscienza di essere un tutt’uno con l’universo, significa essere in sintonia perfetta con il cosmo.

Come l’immagine della luna e degli alberi che si riflettono in uno stagno viene distorta dallo stagno stesso, similmente la percezione della realtà può essere distorta dai nostri pensieri. Un bellissimo esempio è quello dell’albero e della foglia. Se noi dinnanzi ad un albero fissiamo una sola foglia, vedremo solo quella specifica foglia, ma se noi guardiamo l'albero nel suo insieme allora vedremo tutte le foglie che sono sulla pianta.

La via della spada non è semplice via delle armi, ma anche la risposta alle domande della vita.

Per quelli più scettici, posso solo dire che, per esperienza personale, anche se leggendo questi libri potrebbe sembrarvi che nulla vi resti, in verità senza rendervene conto, nei momenti di difficoltà, tutti questi insegnamenti riaffioreranno alla vostra mente aiutandovi a ritrovare parte di quell’equilibrio necessario per affrontare al meglio le avversità. 





mercoledì 23 novembre 2022

“La spada che dona la vita” di Yagyu Munemori (a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia)

Il volume si apre con una lunga ed esaustiva introduzione a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia in cui si dà immediatamente notizia delle note biografiche di Yagyu Munemori nato nel 1571 nel villaggio di Yagyu-mura.

Egli fu maestro di spada del primo shogun Ieyasu Tokugawa e in seguito di suo figlio Hidetada, secondo shogun, e di suo nipote Iemitsu, terzo shogun.

Negli anni divenne anche un importante consigliere di corte. Tra i vari interessi che il maestro di spada coltivò ci fu quello per il buddhismo zen forse perché stimolato dal suo caro amico, il monaco Takuan Soho.

L’introduzione però non si limita solo alle notizie biografiche dell’autore dell’Heiho kadensho (La spada che dona la vita), uno dei più importanti trattati sulle arti marziali della tradizione giapponese, ma prosegue descrivendo quel mondo e raccontando il periodo in cui Yagyu Munemori visse e trasmise i suoi insegnamenti.

Apprendiamo attraverso queste pagine la storia del Giappone e dei Samurai; veniamo introdotti al concetto di zen che, come abbiamo già ripetuto in occasione di altre letture, non può essere definito né una religione né una filosofia, ma meditazione.

Non manca neppure un’interessante storia della spada giapponese dalle origini fino ai giorni nostri. Le spade attuali, o comunque quelle realizzate dopo il 1953 con i metodi tradizionali, sono note con il nome di shinsakuto (spade recenti o contemporanee).

Si passa poi al libro di Munemori vero e proprio che è diviso in tre sezioni: “Il ponte della scarpa”, “La spada che dà la morte” e “La spada che dona la vita”.

La prima sezione è quella più legata alla pratica della spada così come l’appendice che si trova al termine del libro ossia “Il catalogo illustrato delle arti marziali della Shinkage-ryu”.

Le altre due sezioni invece, sebbene legate all’insegnamento dell’arte della spada o meglio dell’arte della “non spada”, sono più discorsive e offrono insegnamenti utili nella vita di tutti i giorni non solo in un combattimento.

L’arte marziale è prima di tutto osservazione. L’osservazione in tempo di pace è utilissima a comprendere quando stia per sopraggiungere il caos e intervenire prima che sia troppo tardi. Stupisce quanto tutto ciò sia ancora straordinariamente attuale. Inoltre, leggendo queste pagine, non ho potuto fare a meno di notare diversi punti di contatto tra il pensiero di Munemori e anche di Musashi con quello di Niccolò Machiavelli vissuto in Occidente poco tempo prima.

Analogie si riscontrano laddove si parla dell’importanza di imparare a leggere le situazioni per prevenire il peggio perché la battaglia si vince prima di combatterla; della necessità di mantenersi imperturbabili perché “la spada che manca il bersaglio è una spada morta”, oppure della necessità di annientare un uomo malvagio se questo fa soffrire diecimila persone. In questo caso infatti la spada che dona la morte ad un uomo è la stessa che dona la vita agli altri diecimila.

Ci sono molte risposte che non vi aspettereste di trovare in questo libro. Per esempio, vi siete mai chiesti perché proprio quando fate più attenzione nel fare una cosa, ecco, proprio allora è più facile che commettiate un errore? Questo accade perché prima di iniziare, vi siete fissati nel farla in un certo modo e tale comportamento vi porterà a non ottenere il risultato sperato. Per riuscire la mente non deve essere mai occupata dal pensiero di fare bene qualcosa.

Fondamentale è eliminare le malattie della mente, quello che nel buddhismo viene definito attaccamento. La mente deve rimanere vuota. Dobbiamo dimenticare le fissazioni che sono dannose e imparare a lasciare andare. Se ci fissiamo su qualcosa perdiamo la percezione di quello che ci circonda. Perdere lucidità in un combattimento favorisce il nostro avversario mentre nella vita di tutti i giorni comporta la perdita di occasioni importanti perché non riusciamo a vederle.

“La spada che dona la vita” è un libro che, sebbene scritto secoli fa, sa parlare e offrire un valido aiuto anche a noi che viviamo nel XXI secolo poiché oggi come allora non essere colpiti è già una vittoria.





mercoledì 10 marzo 2021

“Il cuore delle cose” di Natsume Sōseki (1867-1916)

Inizi del Novecento, uno studente universitario giapponese racconta del suo incontro con il maestro durante una vacanza a Kamakura. 

In verità egli non è un suo insegnante, ma lo studente gli si rivolge così per rispetto; come egli stesso infatti spiegherà nelle prime pagine del libro è sua abitudine rivolgersi in tal modo alle persone più anziane.

Il romanzo è diviso in tre parti, nelle prime due l’io narrante è lo studente che in prima persona racconta dei suoi studi, della sua famiglia, ma soprattutto cerca di fare luce sullo strano rapporto instauratosi nel tempo tra lui e il maestro, rapporto che coinvolge in parte anche la moglie di questi.

Nell’ultima parte invece a prendere la parola è il maestro stesso che, attraverso le pagine di una lunga lettera, affida allo studente il suo testamento morale.

Il cuore delle cose (titolo originale Kokoro) di Natsume Sōseki, ritenuto oggi il suo capolavoro, presenta molti punti di contatto con la biografia del suo autore tanto da poter identificare il maestro con l’autore stesso.

Molto importante diventa quindi, per comprendere meglio il romanzo, la lettura dell’interessante prefazione di Gian Carlo Calza dedicata proprio alla vita di Sōseki e alla sua poetica.

Il 30 luglio 1912 morì l’imperatore Meiji e questo evento segnò profondamente il Giappone. Con la morte dell’imperatore terminava l’epoca di transizione del Giappone dal mondo feudale alla corsa verso l’occidentalizzazione.

Mi sono interrogata spesso sulle problematiche della traduzione di questo libro, non solo a livello linguistico, ma anche sulla difficoltà nel riuscire a trasmettere adeguatamente quella spiritualità e quel sentire orientali così lontani dalla cultura occidentale.   

In questo romanzo, forse anche perché Natsume Sōseki era un profondo conoscitore della letteratura occidentale ed in particolare di quella britannica, non si avverte nessun forte distacco tra le due culture. Qui la tradizione giapponese entra in comunione con quella occidentale sulla scia di quell'occidentalizzazione verso cui si avviava il Giappone proprio a quel tempo.

Così il concetto che l’amore profondo provato per la donna amata sia da paragonarsi ad una religione, nonostante venga espresso in un romanzo dove la società segue un modello prettamente patriarcale, non può non richiamare alla memoria la poetica di John Keats e quella lettera che il 13 ottobre 1919 egli scrisse alla sua Fanny “Sono sempre rimasto stupefatto dinnanzi a chi moriva da martire per la religione – l’amore è la mia religione – io potrei morire per amore – potrei morire per te. Il mio unico credo è l’amore e tu il mio solo dogma”.

Il cuore delle cose è un romanzo particolare, un romanzo che si svela a poco a poco, intriso di malinconia e solitudine. Delusione e senso di perdita pervadano ogni pagina; su ogni cosa domina la sfiducia nel prossimo dal momento che non può esistere una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi poiché si può essere certi che anche i migliori inevitabilmente dinnanzi alle tentazioni della vita si lasceranno corrompere.

Incomunicabilità, rassegnazione e frustrazione coinvolgono tutti i personaggi indistintamente, lo studente, la moglie, il maestro, l’amico K, soffocando ogni cosa; le verità taciute, il senso di inadeguatezza, la sofferenza, il tradimento minano alla base ogni rapporto, ogni possibile complicità è preclusa.

La moglie del maestro continuerà a sentirsi colpevole per qualcosa che non ha commesso, il maestro seguiterà a colpevolizzarsi ritenendo se stesso la sola causa di tanto dolore, mentre l’ombra dell’amico K, morto da tanto tempo, continuerà a spandere la sua tragica ombra sulle vite di chi gli è sopravvissuto.

Solo allo studente sarà concesso conoscere la verità, ma sarà troppo tardi o forse no, forse conoscere la verità potrà salvarlo da se stesso e dalle prove della vita che lo attenderanno in quest’epoca moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione individuale.